Connessi all'Opera, 12.4.2024
Paola De Simone
 
Ponchielli: La Gioconda, Neapel, Teatro San Carlo, ab 7.4.2024

Napoli, Teatro San Carlo – La Gioconda (con Netrebko, Kaufmann, Tézier)
 
 
Bellissima e di alta suggestione poetica, come una tela dipinta da Hayez. E finanche di forza leonardesca (la cantatrice errante protagonista in effetti, fra veste e capelli, ha tanto della sua Monna Lisa) per un turbine finalmente intelligente che rende emblematici nella realizzazione registica e scenica rilievi e rimbalzi pronti a legare a fil doppio fonte letteraria francese, versi nati dalla sensibilità scapigliata e pentagrammi – non facili né mai scontati – del secondo Ottocento lombardo. Il tutto con il bel risultato di centrarne appieno il fuoco e il fango, le tenebre e i raggi, le nebbie remote, i sogni e le passioni al pari della bieca malìa. E strizzando, tra l’altro, l’occhio alla teatralità veneziana della commedia improvvisa attraverso il gioco drammaturgico o coreutico delle maschere e originalmente dando a sorpresa, nella chiusa, corpo vero all’irrisïon beffarda siglata Boito laddove la Cieca cadavere va dritta contro Barnaba, rincarando così la dose al suo misfatto perdente (“non ode più!”).
È una Gioconda di Amilcare Ponchielli, quella tornata in scena al Teatro San Carlo di Napoli dopo ben 47 anni di assenza nella coproduzione inedita con il Gran Teatre del Liceu di Barcellona a firma del giovane e veramente bravo regista Romain Gilbert sotto la robusta direzione musicale di Pinchas Steinberg, che con il suo pieno, meritato successo ampiamente risponde alle premesse felici di un esito annunciato fra cast di prima sfera e spinta al massimo delle risorse interne così come, nel concreto impegno e nell’esemplarità di tutti gli elementi in campo, arriva a rappresentare un po’ il modello di quel che finalmente ci si attendeva da tempo per una sala e un palcoscenico forte, dal Sette al Novecento compreso, di tanta storia e gloria. A maggiore ragione per un titolone del grande repertorio di un tempo a stretto rinvio con quanto si è ascoltato, sotto diversa forma ma dalla stessa coppia di protagonisti, a Salisburgo.

Stelle canore a parte, la cui prova va ad ogni modo pesata e valutata a seguire per ciascuno nel complesso, la Gioconda ridisegnata dalla dettagliata regia di Gilbert conquista intanto perché si avvale di una macchina teatrale che funziona a dovere e a meraviglia, con tempi teatrali calibrati al passo e nel senso esatto sia del testo che della musica con tocchi di sensibilità sottile e colpi d’occhio spettacolari, soprattutto nei quattro finali d’atto.
Al di là del rispetto di luogo e tempo dell’azione nella Venezia del secolo diciassettesimo (quanto mai opportuno a fronte di una trama già di per sé articolata e complessa come quella rielaborata da Boito sotto la copertura anagrammatica di Tobia Gorrio sullo spunto del dramma di Victor Hugo già utilizzato dal Giuramento del Merdadante), l’impianto risulta difatti ben pensato e ancor meglio realizzato curando innanzitutto d’intesa i movimenti d’assieme e la simbologia gestuale del singolo. Le mani di Barnaba e infine della stessa Gioconda, ad esempio, si macchiano del torbido fango di cui è impregnata la laguna, lo scatto di gelosia dell’Inquisitore che bruscamente ferma la mano di Barnaba sulla Gioconda svela tanto e in un solo istante quanto sia rimasto del legame fra la cortigiana amante e l’Inquisitore in allusione alla fonte di Hugo o, ancora, la polifunzionalità di Arlecchino all’uopo Isèpo che bagna la penna sulla punta vibrante della lingua al trillo degli archi per scrivere sotto la maligna dettatura il biglietto d’accusa anonimo. E ancora si premia l’invenzione danzante – assolutamente pertinenti quanto deliziose le coreografie di Vincent Chaillet – secondo il conio della Commedia dell’Arte ma declinato alla Massine-Picasso-Stravinskij, nonché la valenza semantica e d’atmosfera, fondamentale, delle luci disegnate da Valerio Tiberi. Ulteriore la lode per la sontuosa perfezione dei costumi d’epoca dello stilista francese Christian Lacroix, fra rasi, velluti, merletti e damaschi per i nobili ma stoffe usurate dal tempo per la stessa Gioconda, per la madre e le maschere (le losanghe di Arlecchino sono ad esempio sbiadite) e il popolo. E i buchi valgono anche per le rosse tende consunte del palco di strada da cui si organizza la danza pantomima delle Ore, giustamente riportata alla dimensione di balletto in quattro sezioni a trama autonoma (le tribolazioni amorose di Arlecchino e Colombina contrastate da Pantalone) evitando l’astratto e generalmente stucchevole divertissement in tutù ottocentesco. Quanto al contenitore scenico ideato da Etienne Pluss, nei quattro atti, le soluzioni appaiono ben organizzate e tutte di sicuro impatto: la corte bianca e antica dell’alto Palazzo dei Dogi con scala dei Giganti alla cui base si appoggia il cantore Barnaba, spia e possente demone del Consiglio dei Dieci, il poggio da cui si affaccerà Alvise Badoèro capo dell’Inquisizione, al fianco della moglie Laura Adorno, la bocca del leone per la consegna delle denunce segrete e un altro più un ampio portone, come elemento architettonico di fondo che tornerà anche più avanti. Qui prendono forma la scena di massa del popolo ora a raccolta intorno allo spettacolo delle acrobazie di strada, ora in sommossa minacciosa contro la Cieca, quindi eccitato nella Furlana tra giocolieri che soffiano nubi di fuoco vero e la danza delle tre maschere con Pantalone, Pulcinella e un rosso demone che resta nell’ombra seduto di profilo sul ciglio anche durante il sacro a forte contrasto con la Preghiera vespertina, quale simbolo del male e quasi emblema del Boito-Barnaba (quindi del futuro Jago per Verdi) a ordire l’inganno della malevola ragna; poi, per l’atto del Rosario, lo spazio si apre su una laguna dall’acqua tetra, con pochi fili di piante selvatiche ai lati, lembi di terra e il vascello di legno Hècate al cui albero è legato l’altarino della Madonna. La chiusa, qui all’atto secondo, è straordinaria, tra i fuochi dell’incendio appiccato dallo stesso proscritto Enzo Grimaldo e il suo restare di spalle fra i bagliori nell’ombra della notte, fino al calar della tela, oltre la quale fuori finzione si ascolta il veloce e forte rumore degli estintori a spegnere le fiamme vive e impressionanti di quel quadro. In via analoga, con sapienza, si dà forza all’atto terzo, nella dimora di Badoèro alla Ca’ d’Oro, trasformando Alvise in una sorta di Amleto con tanto di teschio, il talamo in tomba e lasciando intravedere in sfumatura d’anticipo, oltre il siparietto, l’elemento danzante. Infine l’ambiente diroccato e di color fosco alla Giudecca fa da sfondo alla scena madre dell’idea del Suicidio, alla generosa riunione degli amanti Enzo e Laura, alla finta seduzione intorno al voglioso Barnaba e al sacrificio di Gioconda.

A ciò si aggiunga la notevole prova di tutte le masse artistiche della Fondazione lirica napoletana: l’Orchestra che segue con attenzione e sollecitudine la direzione rigorosa e stilisticamente calibratissima garantita da un esperto leone del podio qual è Pinchas Steinberg (grande il lavoro sugli archi come sugli equilibri d’assieme, pregnanti le musiche di scena, raffinatissime le danze, vivi gli accenti verdiani, costante il sostegno alle voci), il Coro puntuale e sempre molto efficace (superbi i tenori e alcuni nuovi soprani) magnificamente preparato da Fabrizio Cassi, bravissimo il Coro di Voci Bianche istruito da Stefania Rinaldi e ottima la Compagnia di Balletto diretta da Clotilde Vayer.

Fermo restando il cardine di prima qualità riconoscibile nella direzione musicale, nel cast di purosangue si ammira in special modo il Barnaba del baritono Ludovic Tézier, titanico nel dominio della parola, del suono e del fiato, parimenti potente nella proiezione come nell’espressione interiorizzata tendente a virare il piglio grifagno in uno stile più nobile e dunque più subdolo ancora. Il suo vibrante monologo “O monumento!”, già tanto Credo di Jago, prende corpo e forza a frasi larghe, cercando e trasformando in vette gli accenti, stringendo fra le labbra il pianissimo della parola “spia”, rendendo plasticamente grandioso il gesto canoro al salto di quarta finale in cui infila con violenza il piego nella bocca del leone-maschera Isèpo. Mirabile, ancora, il piglio ritmico della sua barcarola a tempo di valzer “Pescator, affonda l’esca” e tutti i suoi confronti o scontri in duetto, con Enzo, con la Cieca, con la Gioconda.
A seguire, per spessore vocale e temperamento scenico perfetti in tale sua fase per il ruolo del titolo, si applaude ampiamente la prova di Anna Netrebko, Gioconda appassionata, sensuale e volitiva, ricca di sfumature emotive, ben sfaccettata nell’illusione, nella gelosia rabbiosa come nel dolore. Il timbro, il peso e lo slancio corrispondono a quanto la parte richiede anche se al grave taluni suoni risultano eccessivamente scavati e talvolta l’intonazione in declamato tendenzialmente curvata verso il basso. Ma sa come dare al meglio voce e forma ai suoi tanti, “troppi dolor sovra un solo cuore” e a una scrittura decisamente ardita risultando abile incantatrice nella piena canora come nei lucenti filati all’acuto, disinvolta in tutti i salti repentini d’ottava, nel dettaglio dei cromatismi, nei cambi d’accento e nelle spinte drammatiche, ergendosi immensa sul palco in “Suicidio!”.
Romantico e scenicamente amabile è l’Enzo Grimaldo di Jonas Kaufmann, timbro virile e dolcemente eroico ma con qualche velatura nei suoni all’acuto e più di una forzatura nell’emissione governata, a ogni buon conto, da una viva caratterizzazione del personaggio, dalla sostanza delle parole e da una sempre assai elegante tecnica di costruzione della frase musicale che fa il paio con l’esatta intonazione (come al si bemolle acuto ben legato e con corona su “idol mio”), pur a fronte di momentanee pieghe nella fibra. È quanto si ascolta nell’apicale romanza “Cielo e mar” e di lì lungo l’intero corso dell’opera che in verità, al suo canto, riserva interventi e condotte non sempre agevoli da risolvere.
Un po’ rigida scenicamente ma ben preparata vocalmente, così come attesta nella sua romanza “Stella del marinar!” e nello scontro rivale in duetto con Gioconda (E un anatèma), è il mezzosoprano Eve-Maud Hubeaux, andata a sostituire a pochi giorni dalla prima l’inizialmente prevista Anita Rachvelishvili. Brava e con gran dominio delle note al grave (ottima in “Voce di donna”) il mezzosoprano Kseniia Nikolaieva nei panni contraltili di una Cieca dolente e assai drammatica, persino inquietante a tratti, come nell’apparizione finale e al pari molto bene il basso Alexander Köpeczi per un Alvise Badoèro preciso e a fuoco fra voce sonora e dinamiche rese più interessanti in apertura d’atto III di quanto il personaggio disponga. Lodevole infine Lorenzo Mazzucchelli (Zuàne, Un cantore e Un pilota), apprezzabili sia Roberto Covatta (Isèpo) che Giuseppe Todisco (Un barnabotto), magnifici sul fronte coreutico Vittoria Bruno (Colombina), Alessandro Staiano (Pantalone) e Salvatore Manzo (Arlecchino).
Al termine, una meritatissima festa di applausi e di fiori per tutti gli artisti della sontuosa produzione.


















 
 
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