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Connessi all'Opera, 22 Novembre 2023
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Alessandro Mormile
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Gala: "Caruso a Monaco", Monte Carlo, 19. November 2023
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Monte-Carlo, Grimaldi Forum – Caruso à Monaco (con Jonas Kaufmann)
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Ogni 19 novembre, nel Principato di Monaco, si festeggia la Festa Nazionale
Monegasca. Questa occasione celebrativa ha una appendice serale mondana
attraverso la quale questo piccolo Stato vanta il meglio di se stesso e di
un orgoglio culturale che ha certo nell’Opéra di Monte-Carlo una delle sue
massime espressioni, la cui alta tradizione continua a imporsi
all’attenzione internazionale. Da un anno l’istituzione è guidata da Cecilia
Bartoli, che firma la sua prima serata di gala per la festa nazionale con la
tradizionale presenza della famiglia reale nella grande Salle des Princes
del Grimaldi Forum. Dopo il tradizionale inno monegasco intonato in omaggio
ai Principi presenti in sala, all’elegantissimo pubblico è stato quest’anno
offerto uno spettacolo il cui valore diviene altissimo se rapportato al mito
di Enrico Caruso e a come esso si è intrecciato con le vicende artistiche
della locale Opéra di Monte-Carlo, quando a dirigerla c’era Raoul Gunsbourg,
leggendario direttore nonché compositore al quale molto si deve se la storia
di questo teatro vanta insigni traguardi, con importanti prime esecuzioni
assolute e presenze di artisti che, nel periodo della belle époque, lo hanno
reso un punto di riferimento europeo fra i più attrattivi.
La
spettacolo del quale riferiamo, intitolato Caruso à Monaco, si presenta
dunque come un omaggio a uno dei più grandi tenori della storia e insieme un
ritratto chiaro e limpido di come i suoi destini artistici e umani abbiano
segnato la vita musicale del Principato di Monaco. Lo realizza Davide
Livermore, coadiuvato da Alfonso Antoniozzi e Alberto Mattioli, che studiano
una drammaturgia ben meditata attorno alla presenza del divo-tenore Jonas
Kaufmann, al quale viene affidato il compito di interpretare la parte di
Caruso, mentre sul podio dell’Orchestre Philharmonique di Monte-Carlo sale
addirittura Sir Antonio Pappano. Gli ingredienti per una serata eccezionale
ci sono tutti, utili anche a verificare, vista l’impegnativa sequela di arie
affidate al celebre tenore tedesco, le sue attuali condizioni vocali.
Lo spettacolo, con scene di Giò Forma, si svolge in una immaginaria hall
d’ingresso dell’Hôtel de Paris, fra divani e poltrone in pelle capitonné che
girano su una pedana centrale circolare. Qui un vecchio portiere
dell’albergo, l’italiano Salvatore, impersonato da Alfonso Antoniozzi, evoca
in dialogo con Raoul Gunsbourg, incarnato dal celebre attore Remo Girone, la
tappe del percorso artistico di Caruso: ovviamente il loro colloquio, che
pare un dialogo fra fantasmi del passato, è intrecciato di ricordi che
mettono in rilievo i punti cardine del suo percorso, infarcendolo di quelle
tinte malinconiche scure che la messa in scena stessa richiama attraverso un
sofisticato utilizzo di video, firmati da D-Wok, che mostrano, attraverso
cieli densi di nubi scure, atmosfere cosmiche dai riflessi mentali, o in
immagini-ritratto e filmati storici dagherotipati l’evolversi della carriera
e del mito americano di Caruso, portatore di quella italianità che ebbe
modo, in anni di emigrazione verso il sogno americano, di far identificare
gli italiani esuli oltre Oceano nella New York dei primi del Novecento in
una voce che aveva rivoluzionato ogni canone ottocentesco per aprire il
canto tenorile alla modernità. I testi recitati con partecipazione e bravura
da Alfonso Antoniozzi e Remo Girone sono sapientemente studiati per rendere
chiaro l’evolversi del mito di Caruso nel suo significato più profondo,
umano oltre che artistico, incastonandosi fra le arie e gli interludi
sinfonici e trovando con essi un aggancio drammaturgico fluido, sempre
pertinente a una narrazione che non elude l’evento festivo oltre che
celebrativo della serata, lodando la bellezza delle coste del Principato,
baciate da un clima ideale e dalla vista sull’infinito orizzonte della
distesa marina. Gli autori lo fanno con quella patina di nostalgia che evoca
la vita stessa del grande tenore, coronata di successi ma anche di dolori e
da una malattia che lo spinse a tornare in patria per morire nel golfo di
Napoli, in quella Italia che amava e della quale aveva incarnato il profondo
sentire nelle Americhe dove la sua voce aveva trovato successo anche grazie
alle incisioni discografiche, allora nascenti, che diedero alla sua voce una
fama planetaria.
Caruso si esibì a Monte-Carlo per la prima volta il
1° febbraio 1902 come Rodolfo nella Bohème, accanto all’allora famosissima
Nellie Melba nei panni di Mimì. Dopo i primi successi negli Stati Uniti vi
tornò nel 1903 per Tosca e poi nel 1904 per undici serate memorabili in cui
cantò Rigoletto, La bohème, L’elisir d’amore e Aida. Infine, nel 1915,
durante la prima guerra mondiale, nonostante avesse deciso di rimanere
prudentemente negli Stati Uniti, intraprese un rischioso viaggio in nave
verso l’Europa e si fermò a Monte-Carlo dove cantò Aida e poi Rigoletto e
Lucia di Lammermoor, ma soprattutto si esibì in una serata in cui lo si
ascoltò nel primo atto di Samson et Dalila e in un suo grande cavallo di
battaglia, Canio nei Pagliacci, dove fece sensazione. Lo stesso impresario
Gunsbourg, noto talent scout, ebbe a ricordarlo nelle sue memorie, magari
con un filo di fantasia nell’attribuirsi meriti che non aveva avuto nel
lancio della carriera di Caruso ma evidenziandone le sue caratteristiche
vocali e la presa che esse avevano sul pubblico con queste parole: “La
ragione della presa della voce di Caruso sul pubblico è che, proprio come la
Patti aveva la voce di un Falcon e cesellava i vocalizzi come una cantante
leggera, Caruso aveva una voce baritonale che saliva come la voce di un
tenore fino al do acuto e persino al re: questo fascino vellutato ha
ammaliato gli ascoltatori”.
Questa serata monegasca in onore del mito
di Enrico Caruso ha quindi avuto un valore storico assai significativo e la
si è ben congegnata nel farlo, al di là della presenza certo attesa di un
Jonas Kaufmann che ha fatto veramente di tutto per conquistare il pubblico
nonostante la voce, impegnata in un programma di arie davvero massacrante,
abbia risentito qua è là di alcune smagliature. Lo si è ascoltato nella
sortita di Radamès da Aida, cui sono seguite l’aria di Don Alvaro da La
forza del destino, “Vesti la giubba” da Pagliacci, l’addio alla madre da
Cavalleria rusticana, “Cielo e mar” da La Gioconda, l’improvviso da Andrea
Chénier e “Rachel, quand du Seigneur” da La Juive, l’opera con la quale
Caruso diede l’addio alle scene del Metropolitan di New York. Si è ascoltata
ancora un’aria, non inserita nel programma, “E lucevan le stelle” da Tosca,
con la quale si è ricordato come il mito di Caruso, dopo la sua morte, fosse
ormai entrato nella costellazione dei grandi. Poi a fine spettacolo, dopo
gli applausi al proscenio, il coraggioso e impavido Kaufmann ha regalato
ancora al pubblico due bis: “L’anima ho stanca” da Adriana Lecouvreur e la
Mattinata di Leoncavallo, che ha concluso salendo all’acuto con voce ancora
salda nonostante avesse sulle spalle una serata tanto impegnativa.
Oggi la voce di Kaufmann presenta, nella sua innegabile grandezza, luci e
ombre. Il timbro è sempre scuro, ma non eroico, come se il vigore venisse
smorzato dalla volontà, forse dettata dall’attenzione espressiva sempre
scrupolosa nel rispetto di ciò che la partitura indica (come è da subito
evidente nelle arie da Aida e La forza del destino, dove il si bemolle che
sigla la prima è attaccato in pianissimo e rinforzato con una ardita messa
di voce, così come l’attacco sognante in piano dell’altra su “O tu che in
seno agli angeli”), di piegare il canto a una mezza voce ricercata al punto
che il suono talvolta si assottiglia e sbianca fino a dare l’impressione in
chi ascolta che accenni invece di cantare, incorrendo per di più in
emissioni che, nel passaggio a voce piena, qua e là faticano a trovare il
giusto equilibrio. Ed ecco alcuni piccoli cali d’intonazione, in fondo
perdonabili se il tutto viene ricondotto all’arte suprema dell’interprete,
alla sua capacità di donare senso a tutto quello che canta con una
sensibilità propria a pochi tenori oggi al mondo, misurando le forze e
raccogliendo prudentemente i suoni. La cura del legato, la flessibilità
d’emissione, i fiati portentosi e quel timbro tenorile d’impronta
baritonale, screziato di biancore nel canto sfumato, contribuiscono a
rendere il suo eroismo febbrile, emozionale nell’essere virile ma
profondamente umano e fragile, modernamente connotato secondo un canto che
crea sempre un’atmosfera e non affida nulla al caso, ma persegue ideali
artistici che, seppure non sempre supportati da una ortodossia vocale
immacolata, catturano il pubblico e lo portano inevitabilmente
all’entusiasmo.
Lo asseconda al meglio Sir Antonio Pappano, ciliegina
sulla torta di questa serata celebrativa, siglata da una intesa perfetta col
Coro dell’Opéra di Monte-Carlo al massino della sua forma e istruito da
Stefano Visconti (lo si ascolta con piacere nel “Din Don, suona a vespero”
da Pagliacci e in “Chi del gitano” da Il trovatore) e con l’Orchestre
Philharmonique di Monte-Carlo. Soprattutto nelle pagine solo orchestrali,
come la sinfonia della Forza del destino, e negli intermezzi da Cavalleria
rusticana e Manon Lescaut, il suono è avvolgente e carico di calore, trova
miracolosamente quel respiro melodico che si stempera in colori e abbandoni
che rendono il sapore delle pagine altamente teatrale e ricco di pathos
emotivo. Anche tenore e direttore hanno una intesa perfetta e sanno quindi
ben individuare il filo conduttore comune che, in un contesto come questo,
sa trasmettere quelle emozioni che, con un tocco di giusta malinconia,
celebrano un mito tenorile del passato rapportandolo al gusto esecutivo del
tempo presente. Serata quindi indimenticabile, giusta per far luce su un
capitolo fondamentale della storia operistica monegasca.
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