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Operaclick
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Caterina De Simone |
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Wagner: Parsifal, Wiener Staatsoper, 18. April 2021 (Stream, Aufzeichnung vom 11. April 2021)
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Vienna - Wiener Staatsoper: Parsifal (streaming) |
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Chi sono i cavalieri del Graal di oggi? Esiste ancora un sistema di
consorterie basato su valori fondanti che ne dettano nascita e sviluppo?
Sono solo un paio tra le innumerevoli domande che affollano la mente
dello spettatore impegnato nella visione del nuovo Parsifal (ahimè ancora
una volta in streaming, come se questo succedaneo potesse placare
l’astinenza dall’esperienza dal vivo) commissionato dalla Wiener Staatsoper
a Kirill Serebrennikov, qui regista, scenografo e costumista.
Prima
di addentrarci nella materia magmatica del Buehnenfestspiele è utile
ricordare come la produzione abbia avuto una gestazione travagliata dovuta
prima all’impossibilità dello stesso Serebrennikov di lasciare la Russia
poiché agli arresti domiciliari, e in seguito alla sospensione delle prove
per via di un caso di Covid fra le masse artistiche. Nonostante tutto si è
riusciti a programmare uno streaming che Arte concert ha trasmesso domenica
18 Aprile e che resterà disponibile per la visione per tre mesi.
Diciamo subito che il risultato finale lascia un grande rimpianto: quello di
non aver potuto assistere allo spettacolo dal vivo in modo da apprezzare al
meglio l’intreccio inscindibile tra video e azione scenica. Sin dal preludio
infatti la qualità cinematografica e le innumerevoli citazioni presenti
nell’allestimento si mostrano come elemento centrale.
La
contaminazione tra cinema e teatro è davvero la strada del non ritorno nel
mondo dell’opera lirica? O è solamente un espediente per sopravvivere alla
chiusura delle sale sfruttando le infinite possibilità della tecnologia
odierna? Difficile a dirsi; nel caso specifico le immagini in primissimo
piano e l’attenzione insistita al dettaglio, il tutto proiettato al di sopra
dell’impianto scenico, fungono da “messa in situazione”. Avremmo davvero
voluto essere presenti nella grande sala della Wiener Staatsoper proprio per
non perderci nemmeno uno dei tanti particolari minuziosamente disseminati
nei video di Aleksey Fokin e Yurii Karih che la regia televisiva di Michael
Beyer ci ha prontamente mostrato.
Avviene così che, attraverso le
riprese invernali di una cattedrale in rovina, il carcere maschile nel quale
sono ambientati primo e terzo atto rappresenti la fase finale di una
dogmatica esistenza di costrizione entro regole che nulla più hanno della
spiritualità originaria. Cavalieri abbrutiti nella reiterazione di riti
ormai vuoti e stanchi conservano l’ultimo rigurgito di trascendenza nei
tatuaggi su corpi spesso imbolsiti che mostrano gli antichi simboli di
appartenenza alla confraternita. La sacra coppa, la croce e financo la
lancia di Klingsor sono i soggetti che le immagini ci mostrano mentre
Gurnemanz, sorta di capopopolo della prigione, provvede egli stesso a
tatuarli sulla pelle dei compagni.
Parsifal, ormai invecchiato,
ripensa al suo percorso di trasformazione da puro folle a cavaliere
disilluso ripercorrendone le esperienze passate dall’ingresso in carcere
passando per la perdita dell’innocenza, la tentazione dell’effimero
corruttore e infine la liberazione. Serebrennikov utilizza a questo
proposito la tecnica, ormai banale e francamente abusata, del doppio. Solo
che qui questa diventa vero elemento narrativo ed è talmente ben inserita
nel racconto da avere una sua raison d’etre senza penalizzare il
protagonista. Parsifal-Kaufmann canta ai lati della scena agendo come un
narratore onnisciente che ricorda con raccapriccio l’uccisione del cigno
(che altro non è se non un giovane detenuto con grandi ali tatuate sulla
schiena) avvenuta crudelmente nelle docce della prigione, e poi i soprusi e
le percosse ivi ricevute. L’atmosfera sordida e malata ricorda quella di
fassbinderiana memoria di Querelle de Brest ed è vissuta in palcoscenico
dall’intenso Nikolay Sidorenko, attore in veste di doppio del protagonista.
Il microcosmo maschile è penetrato da Kundry non a cavallo ma in qualità
di giornalista impegnata in un reportage sulla vita carceraria. Impermeabile
e parrucca grigia à la Miranda Priestley del Diavolo veste Prada, scatta
foto ai detenuti e fraternizza con loro in attesa di vedere Amfortas,
prigioniero autolesionista ossessionato dalla figura paterna la cui voce di
Stefan Cerny risuona cavernosa senza mai manifestarsi corporeamente. Nel
secondo atto sarà proprio la redazione del magazine patinato Schloss presso
cui lavora la donna a fare da sfondo alla vicenda del sordido Klingsor, più
potente lascivo che angelo caduto e ladro di lance. La Kundry corruttrice
tenterà di abusare di Parsifal abbagliandolo con l’aiuto delle sue
collaboratrici-fanciulle fiore mediante promesse di fama e successo per poi
uccidere ella stessa il magnate che l’ha resa schiava.
L’atto finale
vedrà il ritorno nel carcere iniziale all’esterno del quale gruppi di senza
tetto aspettano un misero pasto in attesa della redenzione finale. Parsifal
ormai invecchiato libera tutti aprendo le celle e restituendo la speranza
alla confraternita e al vecchio re sofferente. Non tutto è però risolto; se
i cavalieri, Gurnemanz, Amfortas e Kundry sembrano avviarsi verso un mondo
di ritrovata spiritualità, il protagonista mostra il suo lato oscuro fatto
di dubbi e rassegnata accettazione di un mondo imperfetto nel quale non
sembra avere fiducia.
Il complesso lavoro di immedesimazione nella
concezione nichilista di uno di quei capolavori che si prestano ad infinite
interpretazioni rende giustizia alla visione del regista, costretto a dare
indicazioni e a montare lo spettacolo a centinaia di km di distanza.
Esemplare è il trattamento delle masse artistiche, delle comparse e dei
protagonisti nel lungo atto iniziale che spesso precipita nella noia scenica
per via del lungo racconto di Gurnemanz. D’altronde in Parsifal si sublima
davvero l’arte del racconto nell’assenza quasi totale di azione all’infuori
dei pochi episodi abilmente disseminati da Wagner nel corso dell’opera. Le
insidie principali per il regista stanno giustappunto in tutta la prima
parte e nell’Agape, e poi nell’incantesimo del Venerdì Santo. Serebrennikov
però le schiva con abilità, sia pure con scelte stranianti che tradiscono i
versi del libretto, ma che hanno la forza dirompente di una visione
contemporanea in grado di farci riflettere su temi spinosi come la
spiritualità, la ricerca del successo ad ogni costo e l’ambiguità che
ammalia a cui è difficile sottrarsi.
Philippe Jordan partecipa a
questa scelta con sonorità che, sia pure mediate attraverso il suono
riprodotto, non assurgono mai a turgori superomistici che sarebbero in
aperto contrasto con la visione registica. La concertazione disperata e i
tempi sostenuti concorrono a ricoprire il tutto di una patina galleggiante e
febbricitante, come se l’inverno dei prigionieri potesse in un attimo
gelarli ed annientarli. La forza propulsiva che spinge i personaggi verso un
qualcosa che forse non esiste, che solo Parsifal comprende ma del quale
dubita fortemente, è già nello scabro preludio, si manifesta nel malaugurale
disvelamento del Gral, nel flessibile oscillare dell’episodio delle
fanciulle fiore e nel drammaticissimo motivo di Klingsor. Nell’incantesimo
del Venerdì Santo l’estatica trasparenza degli archi dei Wiener
Philarmoniker è poi costantemente intrisa di un’angoscia che è profondamente
umana e che mostra un accordo quasi simbiotico con il nichilismo registico.
Inutile sottolineare come i pesi orchestrali siano calibratissimi e
l’accordo buca palcoscenico perfetto, ma di certo il prodotto sonoro che la
ripresa audio ci consegna è frutto di una captazione perfetta che ci
augureremmo di avere anche in ambiti Rai, soprattutto in situazioni come
questa dove è riunito un cast oggi imbattibile per compattezza, proprietà
stilistica e compenetrazione.
Georg Zeppenfeld fa del suo Gurnemanz
collaudato un umanissimo tatuatore dal fraseggio vario e frastagliato, mai
monotono o inerte ma quasi motore della vicenda. Il suo è un cavaliere di
grande intensità che si piega senza sforzo alle esigenze sceniche sfoderando
per di più la proverbiale chiarissima dizione.
A far da contraltare a
questa sorta di depositario delle umane memorie troviamo l’Amfortas di
Ludovic Tézier, al debutto nel ruolo del re dilaniato dalla colpa e dalle
manie suicida. Il timbro robusto e la rabbia quasi ferina della quale il
baritono ricopre il personaggio gettano una luce nuova su un ruolo che
spesso abbiamo ascoltato ripiegato in sé stesso e macerato nell’espressività
trattenuta. Qui invece il disperato “Erbarmen” nel monologo del primo atto
sembra volersi far carico di tutte le colpe del mondo e lo struggente
“Erloeser, gib meniem Sohne Ruh’” diventa un grido di ribellione. L’attore è
poi straordinario e si inserisce a meraviglia nella visione registica.
Elina Garanca fa il suo debutto nell’impervia parte di Kundry imponendo
la presenza scenica e la sgargiante sicurezza nel tentativo di seduzione nel
regno di Klingsor. Il suo richiamo “Parsifal” sembra uscire dalle viscere
della terra stessa, né ammaliante né pericoloso, ma semplicemente
irresistibile per il “puro folle”. Il suo è un canto che fa dello
stordimento appoggiato sul timbro morbido, in accenti pur tuttavia
imperiosi, il tratto distintivo di una donna sfuggente anche nella
remissività del suo “Dienen”.
Da ultimo il ruolo eponimo affidato a
Jonas Kaufmann che, se ce ne fosse stato bisogno, dimostra come sappia
mutare d’interpretazione a seconda delle sollecitazioni provenienti da regia
e podio. Tra il Parsifal inarrivabile del Met con François Girard e Daniele
Gatti nei rispettivi ruoli e l’eroe bloccato visto e ascoltato a Monaco con
Kirill Petrenko in buca, sembrava che null’altro questo artista unico
potesse esprimere su un personaggio che gli calza a pennello. Vocalmente la
tessitura piuttosto centrale si adatta completamente al fascinoso registro
medio del tenore, ma sono il legato e il fraseggio che in questa produzione
stupiscono per la capacità dell’interprete di adattarle al disilluso mondo
di un Parsifal che ha probabilmente visto troppo e le cui brutture hanno
lasciato solchi profondi che neanche il retrospettivo guardare all’ingenuità
del primo atto può offuscare. La bellezza e varietà di inflessioni oltre
alla facilità di tenuta nelle insidiose frasi in risposta al tentativo di
seduzione di Kundry confermano come attualmente non esista un altro cantante
in grado di dare al “puro folle” altrettanta profondità e appropriatezza
stilistico-vocale.
La granitica compattezza della produzione può
infine contare su un eccellente cast di supporto che dal singolo cavaliere
all’ultimo scudiero e poi ancora con il gruppo delle fanciulle fiore
contribuisce a dare un’aura di straordinarietà ad una serata forte anche
dell’eccellenza di coro e orchestra. Si consegna così alla visione dello
spettatore televisivo uno spettacolo da ricordare.
La recensione si
riferisce allo streaming del 18 Aprile 2021.
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