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Connessi all'Opera, 22 Aprile 2021 |
Filippo Antichi |
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Wagner: Parsifal, Wiener Staatsoper, 18. April 2021 (Stream, Aufzeichnung vom 11. April 2021)
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Vienna, Wiener Staatsoper – Parsifal |
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In un teatro come la Wiener Staatsoper, dove gli allestimenti vengono
riproposti per anni e spesso per decenni, la messinscena di una nuova
produzione di Parsifal a soli quattro anni dal debutto della precedente
firmata da Alvis Hermanis è un caso sicuramente peculiare. Certo non si può
dire che il regista lettone avesse proprio brillato in quella prova: aveva
annegato l’ultima opera di Richard Wagner in una splendida scenografia
ispirata agli edifici viennesi di Otto Wagner, una ricontestualizzazione
finis Austriae tanto bella da vedere, ma drammaturgicamente e teatralmente
inconsistente, come sottolineato anche da molta critica straniera. Forse
anche per questo c’era bisogno di una nuova idea.
Kirill
Serebrennikov, regista russo di cinema e teatro che lavora ormai da anni
anche nell’ambiente operistico, fa tutto il contrario di quello che aveva
fatto il collega lettone, e in una ambientazione fredda, glaciale come la
Russia da cui viene, realizza uno spettacolo pensato per la fruizione
teatrale ma che rende benissimo anche in video, e che può tranquillamente
essere considerato una delle migliori regie di Parsifal degli ultimi
decenni, in grado di rivaleggiare con quelle ormai storiche di Stefan
Herheim (Bayreuth 2008) e Dmitrij Cerniakov (Berlino 2015). Nelle sue mani
l’opera wagneriana diventa un racconto di “libertà attraverso la
compassione”, narrato dal protagonista ormai invecchiato, che nei primi due
atti vede il giovane sé stesso (magistralmente interpretato dall’attore
Nikolay Sidorenko) ripercorrere la sua storia con la distanza consapevole
della maturità; solo al terzo atto questo saggio eroe prende parte veramente
all’azione. Durante la vicenda il puro folle impara a empatizzare e
condividere le emozioni con gli altri, riuscendo così a diventare colui che
può mostrare la strada per la liberazione dalle catene materiali e
interiori, dando al prossimo anche gli strumenti per fare lo stesso, come
accade con Kundry, vera liberatrice di Amfortas nel finale. Proveremo a
sintetizzare l’azione complessa dello spettacolo, frutto di un intenso
lavoro sui personaggi da parte del regista e degli interpreti, totalmente
messi a servizio della nuova drammaturgia.
Montsalvat è un istituto
penitenziario di cui vediamo il cortile in cui si allenano i giovani
detenuti. Gurnemanz è l’internato più vecchio che ben conosce tutte le
storie e le regole; è lui che mantiene vivo il ricordo del trauma che un
agente di Klingsor ha inflitto ad Amfortas, un carcerato ribelle alle
condizioni di detenzione disumane del luogo, il quale si infligge ferite
istigato da voci interiori del padre già morto: tutto il dialogo tra Titurel
e il figlio infatti non è che una visione notturna. Kundry è invece una
giornalista autorizzata a frequentare il luogo per i suoi reportages e allo
stesso tempo è il tramite con il mondo esterno per i detenuti. Nella parte
alta del palco, tre schermi mostrano la vita e i protagonisti del campo: qui
si vede l’uccisione del cigno sul racconto di Gurnemanz, un atto di violenza
fatto dal giovane Senza nome su un altro detenuto albino dopo un tentativo
di approccio affettivo. Attraverso questo atto, quasi una iniziazione, il
ragazzo viene ammesso nella gerarchia del carcere ma rimane totalmente
estraneo ai vaneggiamenti di Amfortas e agli aneliti di libertà degli altri.
Nel secondo atto vediamo che Kundry lavora per il giornale diretto da
Klingsor, il quale vuole rendere il giovane Senza nome, appena rilasciato,
dipendente dal suo potere e dai suoi soldi. Le fanciulle fiore sono le
redattrici, fotografe e giornaliste che rimangono incantate da questo
ragazzo e se lo contendono all’inverosimile, ma solo Kundry riesce
effettivamente nella seduzione, risvegliando i ricordi della madre. Entrambi
riescono a cambiarsi a vicenda, laddove Parsifal ritrova sé stesso, Kundry
rinnega la sua vita e uccide quello che era stato il suo capo e amante. La
donna ricompare nel terzo atto totalmente trasfigurata, quasi folle in una
sorta di estasi mistica, mentre vive in quello che era stato il centro di
reclusione insieme ad altre donne e ai detenuti che non riescono a
lasciarlo. Solo Parsifal riesce a mostrare la via della libertà, prima alle
donne che lo consacrano in un rituale improvvisato, e poi agli altri che
alla fine abbandonano il luogo in rovina. Serebrennikov risolve tutti i
nodi di quest’opera senza forzare il testo, ma facendo aderire come un
guanto la nuova scrittura drammaturgica al libretto. Non esita inoltre a
fare un lavoro sui simboli senza rimanerne soverchiato, riuscendo a crearne
anche di nuovi di impatto visivo non indifferente, come l’uso della croce:
nel secondo atto essa è un mero oggetto scenico per i servizi fotografici
alla moda nella sede della rivista di Klingsor (Schloss), ma al culmine del
duetto di seduzione le luci al neon che la corredavano si spengono e quella
diventa l’ossessione della nuova Kundry che con le sue compagne crea piccole
croci devozionali.
La parte musicale è veramente lussuosa a partire
dal direttore. Philippe Jordan, Musikdirektor del teatro dallo scorso anno,
dirige questo titolo con mano sicura, un forte senso del ritmo e una cura
scintillante del suono orchestrale, puntando tuttavia molto alla narrazione
più che al compiacimento edonistico. A voler trovare il pelo nell’uovo,
alcuni passaggi del secondo atto mancano leggermente di nerbo e gli ottoni
risultano talvolta roboanti, ma la tenuta complessiva si può considerare
ottima.
Il cast è un tripudio di grandi nomi ma non tutti si rivelano
all’altezza. Jonas Kaufmann non è fresco come al debutto del Met, e alcuni
passaggi risultano leggermente forzati, ma rimane un Parsifal storico, in
primis per l’immedesimazione scenica, ma anche per quel canto sbalzato in
ogni sillaba, così che non vi è nota che non risulti pensata e meditata per
fare arrivare in modo più diretto il testo wagneriano: basterebbe vedere
come pronuncia “So nannte träumend mich einst die Mutter”, quasi svuotato
dall’abisso interno che il nome Parsifal richiama alla sua mente, per capire
la statura di questa interpretazione. Altro wagneriano ormai consolidato è
Georg Zeppenfeld nel ruolo di Gurnemanz, spesso percepito come una sequela
di tirate un po’ noiose, ma che qui acquistano risalto grazie all’ottimo
declamato del basso. Molto attesi erano invece i due debutti nei ruoli di
Kundry e Amfortas rispettivamente di Elīna Garanča e Ludovic Tézier, due
cantanti non comunemente associati a Wagner. La Garanča canta ovviamente
benissimo e si muove nella tessitura di Kundry senza colpo ferire, esibendo
anche doti attoriali e interpretative se possibile maggiori rispetto a
quelle cui ha abituato il pubblico negli ultimi anni, con alcune intuizioni
espressive difficili da dimenticare: una su tutti il modo sprezzante e
ironico con cui pronuncia “Sind die Tiere hier nich heilig?” rivolto a uno
degli scudieri. Rimane tuttavia un senso di incompiuto nel suo canto: porta
a casa il primo atto, ma nel secondo il canto risulta fin troppo monotono e
monocromo in passaggi come “Ich sah das Kind” e per molta parte della scena
della seduzione, appiattendo le dinamiche coloristiche. Se il
mezzosoprano lettone risulta comunque convincente in fin dei conti, Ludovic
Tézier sembra un pesce fuor d’acqua nella parte di Amfortas: fa percepire il
dolore lancinante del personaggio, ma è costretto a forzare in molti
passaggi, mentre in altri è troppo impegnato a stare a galla nella scrittura
wagneriana per dare profondità alle parole. A completare il cast vi sono il
Klingsor vocalmente un po’ forzato di Wolfgang Koch e il buon Titurel di
Stefan Cerny, mentre le parti di contorno sono affidate e ben realizzate dai
membri dell’ensemble del teatro.
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