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Musica |
Giorgio Rampone |
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Liederabend, Teatro alla Scala, Milano, 28. September 2018
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Fra Lied e opera, il trionfo scaligero di Kaufmann |
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Può accadere che un severo Liederabend si trasformi in una sorta di festa
del canto, al pari di un recital operistico, se non ancora di più. Dipende
dalla disponibilità e dall’attitudine dell’artista, dal suo carisma, dal
clima che si crea in sala in relazione all’attenzione rivolta al programma
dal pubblico e dalle sue più generali aspettative. Che tutti questi fattori
fossero presenti in occasione dell’attesissimo ritorno di Jonas Kaufmann
alla Scala, a oltre tre anni dal più spettacolare e mediatico concerto
pucciniano, è risultato ben presto palpabile. Per la sua quarta esibizione
liederistica nella sala del Piermarini (la prima era stata nel 2007), come
sempre in perfetta intesa con il sensibilissimo Helmut Deutsch, il tenore
bavarese ha ricalcato in parte quanto proposto nel 2013, precisamente nella
sequenza di quattro brani di Liszt in apertura, ai quali ne ha aggiunto
altri due. Idea opportuna, in quanto il compositore ungherese continua a
sposarsi in modo ideale con la sua vocalità, nel suo ardente romanticismo
come nelle ricercate figurazioni timbriche. Così, al piglio irruente,
impulsivo di Vergiftet sind meine Lieder ha fatto subito da contraltare il
gioco di contrasti dinamici di Im Rhein, im schönen Strome, mettendo in
evidenza le coordinate principali della cifra esecutiva ed espressiva del
cantante. Nel pieno della maturità, con un repertorio ormai decisamente
sbilanciato sul versante spinto e drammatico, Kaufmann è qui parso un poco
appesantito, più nel fisico che nella voce. La virile brunitura di fondo,
che dà sostanza al medium e al grave, continua ad essere personale e
suggestiva, mentre la zona acuta è governata senza sforzo, evidenziando la
forza e il metallo che da un tenore è lecito attendersi. Pur rimanendo, il
suo, uno strumento innegabilmente sui generis e probabilmente difficile, si
è avuta la sensazione di una più compiuta saldatura tra i registri,
supportata da uno scrupolo musicale che si traduce in un costante misurato
dosaggio degli effetti. Tra questi ultimi emerge e completa il quadro il
tipico ricorso alla mezza voce e agli assottigliamenti delle note a varie
altezze, talora ritenuti tecnicamente poco ortodossi in termini di sostegno
sul fiato e di consistenza del suono emesso. Osservazioni che qualcuno
sarebbe autorizzato a fare anche riguardo a questa prova, così come i
puristi del Lied potrebbero obiettare sull’uso (peraltro molto contenuto) di
qualche portamento. Limiti che mi sembrano irrilevanti a fronte della
consapevolezza della necessità di sfumare e colorire al massimo ogni frase,
di arrivare a cogliere e a rendere senza retorica il senso del testo come
fatto unitario, attraverso la riflessione e l’intuizione. Questo fa di Jonas
Kaufmann un liederista di razza e moderno nel gusto, con l’aggiunta della
considerazione che le esigenze e le peculiarità stilistiche delle due sfere,
quella del Lied e dell’opera, restano in lui ben distinte ma sinergiche,
ricevendo, la prima, il beneficio di mezzi comunque doviziosi e la seconda
quello di un fraseggio intelligente e di un canto ricco di modulazioni. Un
bell’esempio di questa completezza, che oggi non credo possa ritrovarsi in
altri, è stato offerto da uno dei nuovi brani di Liszt, Die drei Zigeuner,
uno dei vertici della serata. Pagina fitta di immagini, teatrale come può
esserlo una visione onirica, che richiede al pianoforte capacità evocative e
imitative ideali per il tocco delicato di Deutsch e prescrive al cantante
una gamma espressiva dai forti contrasti, che Kaufmann ha reso con grande
maestria ed efficacia, dall’incisivo “parlando” di alcune frasi alla
prolungata smorzatura sulla parola chiave “Traum”, che con dolcezza è
chiamata a precedere la sfogata e drammatica conclusione (preferita a
quella, opzionale, con ulteriori quattro versi, più ripiegata). Altrettanto
congeniali a Kaufmann sono senz’altro i giovanili sette Lieder di Wolf da
Heine, noti anche come Liederstrauss (ma è questione controversa che sia un
vero ciclo), particolarmente quelli in cui la sofferenza amorosa è sublimata
in una dimensione di pacata rassegnazione (come Aus meinem grossen
Schmerzen). Innegabilmente tutti lo attendevano alla prova di Mahler e
Strauss, per la notorietà dei brani e per l’insolita veste tenorile, forse
del tutto inedita nel caso dei Vier letzte Lieder. Non mi sentirei di dire
che i suoi Rückert-Lieder siano un esito del tutto riuscito (la tessitura
della lunga arcata legata di Ich atmet’ einen linden Duft, specie nella
tenuta dell’intonazione, gli è un po’ scomoda), per quanto il timbro scuro
sia una carta vincente e ampiamente spendibile (a cominciare da Um
Mitternacht, collocata come ultima ma forse non scavata a fondo né colta in
tutta la sua potenza espressiva). Viceversa non ha fallito di realizzare in
pieno, grazie alla maestria chiaroscurale, la dimensione emozionale,
veramente unica, di Ich bin der Welt, tanto da strappare un applauso, un po’
sorprendente visto il contesto.
Per quanto riguarda Strauss, è forse
fin troppo scontato rilevare che, nonostante l’ammirevole flessibilità
dimostrata, la soggiogante nostalgica magia degli eterei arabeschi sopranili
non sia facilmente surrogabile. Rimane comunque un altro dei suoi Autori
d’elezione, come ha dimostrato in altre pagine più consone (Heimliche
Aufforderung, Freundliche Vision e Cäcilie), scelte per avviare la serie dei
numerosi fuori programma, nella quale non è mancata, con generale, palese
soddisfazione, una nutrita sezione operistica che ne ha confermato la buona
salute vocale. A parte il recitativo deconcentrato, «Celeste Aida» è stata
un florilegio di piani e pianissimi fino a quello sul si bemolle poi
rinforzato e quindi morente, magari “spoggiato”, ma pur sempre prodigioso a
sentirsi. Meno a fuoco la romanza di Carmen, ma riuscitissimo «E lucevan le
stelle», per la finitura della linea, il controllo dell’emissione (perfetta,
anche nella durata, la smorzatura sul la acuto) e la commozione intensa e
non plateale dell’accento. Infine, raccolti gli ultimi omaggi del consueto
rituale delle fans, il ritorno al Lied, com’era giusto, da dov’era partito
(Liszt), con un’incantevole esecuzione di Es muss ein Wunderbares sein,
degna chiusura di una serata trionfale. Professionale, generoso, senz’altro
abilmente accattivante e quindi anche, a suo modo, “divo” (vedasi la folla
in attesa, non vana, all’ingresso artisti). Ma artista autentico, e di
quelli rari.
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