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Teatro, 28 - 01 - 15 |
Ilaria Bellini |
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Giordano: Andrea Chenier, London, Royal Opera House, 20. Januar 2015
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Londra, Andrea Chenier |
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Dopo oltre trent'anni il capolavoro di Umberto Giordano torna sul
palcoscenico di Covent Garden in un'edizione rilevante per regia, direzione,
protagonista. |
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L’atteso ritorno
Andrea Chénier, grande assente da
oltre trent’anni sul palcoscenico londinese, vi fa il suo ingresso trionfale
con una nuova produzione affidata a tre punte di eccellenza: David Mc Vicar
per la regia, Antonio Pappano alla direzione e, last but not least, Jonas
Kaufmann, il bello e bravo della lirica che non sbaglia un colpo. Come si
può immaginare è la produzione più attesa della stagione, dalla portata
mediatica forte e capace di fare il tutto esaurito anche al cinema, dove
sarà trasmessa in diretta il 29 gennaio con replica l'1 febbraio.
David Mc Vicar ha firmato per il Covent Garden produzioni importanti che ne
hanno segnato la storia recente. Ricordiamo la scandalosa Salome, il Faust
irriverente, il Flauto magico, le Nozze di Figaro, i Troyens di recente
riproposti alla Scala: ma nel corso degli anni la vena provocatoria
originaria si è attenuata e il suo modo di fare teatro sembra sempre più
conformarsi alla tradizione e all’establishment. Andrea Chenier è un dramma
storico incentrato sulle voci che per natura mal sopporta forti riletture,
per cui un approccio registico tradizionale è più che giustificato, tanto
più che a Londra il capolavoro di Giordano è pressoché sconosciuto, ma
questa regia di Mc Vicar è troppo prudente e old fashioned. Il movimento
scenico è per lo più frontale, nessuna controscena di rilievo o trattazione
inedita dei ruoli come avevamo apprezzato in lavori precedenti, piuttosto
una trasposizione didascalica e facilmente leggibile del libretto destinata
a un pubblico da grande schermo.
L’impianto scenico di Robert Jones
ricostruisce con scrupolo le diverse ambientazioni storiche che fanno da
sfondo alla vicenda. Un salotto settecentesco che esprime il kitsch
dell’ancien régime giocato sui toni dell’oro e del giallo con tre fontane
nelle nicchie sullo sfondo, dominato da sei grandi lampadari a gocce.
Camerieri in livrea e candelabri di ordinanza ornano le pareti, mentre
nobili imparruccati in costumi di maniera (di Jenny Tiramani) danzano
gavotte e la pastorale diventa un pas de deux lezioso. In questo mondo
posticcio fa irruzione il poeta idealista che non potrebbe avere miglior
sembiante e di lui ci piace ogni suo singolo gesto, come quel congiungere le
mani sul viso per nascondere/esprimere il turbamento. Il secondo quadro
sfrutta due piani visivi con il caffè Hottot in primo piano caratterizzato
da un lungo tavolo su cui si concentra buona parte dell’intrigo e, oltre le
arcate di pietra e il busto di Marat, s’intravedono le masse in movimento
lungo l’ex Cours–la–Reine e le scritte sui muri che inneggiano alla
rivoluzione. Nel quadro successivo, la gradinata vuota del tribunale che
campeggia solitaria nella metà della scena ha un che di irrisolto, come se
fosse presa da un altro allestimento e riempita di sanculottes e popolani
con le ghirlande appuntate al petto in un tripudio di tricolori e cuffiette
che fa tanto Zeffirelli. Per il finale una struttura lignea curvilinea
simile abbozza una cella e, oltre le vetrate, s’intravede il cortile della
prigione da cui si riverbera la luce che rischiara il duetto dove l’amore
trionfa sulla morte fra baci e abbracci come in un film kolossal mélo alla
Titanic. Avremmo preferito leggere solo alla fine (come del resto
indicato in libretto) le parole di Robespierre “Perfino Platone bandì i
poeti dalla sua Repubblica“: averle fatte comparire sul sipario tricolore
fin dall’inizio e in apertura di ogni atto ne attenua la portata di chiusa
drammatica.
Nella storia del Covent Garden Placido Domingo è stato
l’ultimo Andrea Chénier e Jonas Kaufmann ne è il degno successore e
sorprende per come possa dominare un repertorio così ampio e variegato. Non
tutto però gli è ugualmente congeniale: l’espansione melodica, per esempio,
non è nelle sue corde (questione di emissione e, forse, temperamento). In
Andrea Chénier canta senza una sbavatura, dimostrando pieno controllo anche
nei passaggi più spinti ma manca qualcosa. Nell’arioso avremmo voluto più
slancio e sentimento, provare quel brivido (e ben venga l’effetto se dà
emozione!) proprio di quelle voci latine per colore e ardore che hanno
determinato la fortuna dell’opera. Kaufmann acquista in intensità col
progredire dell’azione e ci piace nel secondo quadro per l’incisività del
declamato propria del poeta rivoluzionario e la cura d’intonazione e
fraseggio con cui crea sotto i nostri occhi il personaggio. Ma per
l’emozione vera bisogna aspettare il quarto quadro dove svetta nel finale (e
finalmente “si abbandona”) dopo averci regalato un introspettivo “Come un
bel dì di maggio” sussurrato alla sua maniera: peccato che la magia sia
stata interrotta dalla Marsigliese canticchiata da Mathieu talmente
amplificata da inibire l’applauso. Non convince la Maddalena di Eva Maria
Westbroek dalla voce importante ma che dimostra poca familiarità con questo
tipo di repertorio. Da perfezionare intonazione e dizione, la “Mamma morta”
ha un buon attacco e volume ma non basta. Anche il personaggio non è
completamente risolto e non s’instaura con Kaufmann quella “chemistry” che
avremmo sognato. Tradizionale ma comunque efficace a fini drammatici il
Gérard di Zeljko Lucic dalla prova in crescendo: mentre “Son sessant’anni“
non è abbastanza amaro e sfumato, il potente “Nemico della patria“ è
coinvolgente e strappa gli applausi del pubblico. Andrea Chénier prevede
numerosi ruoli minori che necessitano di adeguata caratterizzazione e cura.
Luci e ombre nel versante femminile: un plauso alla toccante e
temperamentosa Madelon di Elena Zilio, inadeguata la Bersi di Denyce Graves
come pure la Contessa di Coigny di Rosalind Plowright, una vecchia gloria
del Covent Garden ancora beniamina del pubblico. Più riuscite le voci
maschili: Carlo Bosi si riconferma un Incredibile eccellente, Adrian Clarke
è un Mathieu incisivo, corretti l’Abate di Peter Hoare e Flando Fiorinelli
di Andrew Carter. Fra gli altri ricordiamo Peter Coleman -Wright (Fléville)
ed Eddie Wade (Fouquier-Tinville).
In un repertorio a lui congeniale
Antonio Pappano esalta l’aspetto melodico della partitura con grande
attenzione ai colori e alle sfumature dello strumentale. La cura della
variazione dinamica, dai piani delicati alle folate roventi, conferisce ad
ogni momento drammatico la giusta atmosfera e coinvolge l’audience. Pappano
è notevole per come risolve i passaggi dagli snodi più nervosi al lirismo
diffuso ma ha dei limiti nell’indugiare sul forte. Corretto il coro
preparato da Renato Balsadonna.
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