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GB Opera, 4.3.2015 |
Stefano Ceccarelli |
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Verdi: Aida, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rom, 27. Februar 2015
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Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia: “Aida” |
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Tra abiti di foggia egizia e qualche pianta di
papiro qua e là, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia appresta una serata
di gala a tutti gli effetti: un’Aida in data unica, un’operazione di
marketing da manuale − come ha dimostrato il (quasi) tutto esaurito dei
posti fin quasi da ottobre scorso. Una serata elitaria, da vip o veri
appassionati pronti a far di tutto per accaparrarsi un biglietto. Presenti
in sala i migliori critici italiani e ogni habitué di serate di tal genere,
con le relative coloristiche note di costume. Un’Aida, questa, pensata
sostanzialmente per essere riversata in CD (per l’etichetta Warner
Classics): l’unica esecuzione live è un’anteprima del CD vero e proprio, che
ha catalizzato le attenzioni del mondo operistico italiano, divenendo una
delle serate feticcio dell’anno. Un’opera veramente singolare, l’Aida: una
composizione dal sangue italiano, dal gusto francese e dall’ambientazione
egizia. E queste tre anime devono essere valorizzate allo stesso modo, se si
vuole che il risultato risponda alle autentiche intenzioni drammatiche e
musicali dell’autore. Giuseppe Verdi creò un melodramma la cui impalcatura è
di metastasiana (quindi anacronistica) purezza: una successione di arie,
duetti e ensemble. Ma il gusto che pervade Aida è quello, squisitamente
contemporaneo al compositore, dell’égyptomanie che infiammava la Francia
post-napoleonica: un afflato orientalizzante che compenetrava tutte le arti,
un esotismo di maniera che aveva la sua radice, per quanto concerne l’ambito
musicale, nelle pennellate musicali più ispirate del Rossini serio francese
(gli smaglianti ballabili del Moïse et Pharaon, che non a caso traggono
parte della musica da Armida). Verdi, che conosceva molto bene le mode
musicali di Parigi − indiscussa capitale del gusto musicale europeo del
tempo − e ancor meglio le opere di Rossini, sceglie di colorire la partitura
di raffinatezze, di piacevolezze estetizzanti che, lungi dall’essere mero
decoro alla struttura, ne costituiscono, anzi, il nerbo, garantendo quel
senso dell’indefinito con cui Verdi vuole caratterizzare l’ambientazione.
Pappano, nella sua superba direzione, rende suono vivo tutte queste
caratteristiche. Pappano, pur incappando in qualche incidente in corsa ─ non
certo imputabile a lui ─, sceglie una sua personale visione della partitura,
valorizzando molto la compagine orchestrale. Nell’allestimento musicale di
un’opera, penso, non si deve pretendere un’asettica, esangue perfezione, una
lettura pulita ma vuota della partitura. Si dovrebbe puntare alla coerenza
d’intenti, alla chiarezza e profondità d’espressione: tutti risultati che
Antonio Pappano ha perseguito e abbracciato con consapevolezza. Suoi punti
di forza sono sempre stati il chiaroscuro dei volumi orchestrali; il mettere
in luce lo squisito velluto delle parti più delicatamente pastose; il
passare, con un balzo fulmineo, alle sezioni in fortissimo. Ogni sezione
orchestrale risulta, dunque, godibilissima, a cominciare dall’intimo
preludio iniziale. E come obliare quell’atmosfera incantata, magica,
surreale, che evoca un notturno dove i raggi lunari e le limpide stelle
screziano le increspature del Nilo, che Pappano riesce a creare nel
brevissimo preludio all’atto III, tutto giocato sugli accordi altalenanti
dei violini, sui pizzicati delle viole sul pedale degli archi bassi?
Smagliante è anche la direzione delle sezioni dei ballabili: nella Danza
sacra delle sacerdotesse (I atto) Pappano esalta la sensuale grazia esotica,
dirigendo abilmente i legni (flauti, oboi e clarinetti) nella trama ritmica
delle terzine; nella successiva Danza di piccoli schiavi mori gioca
ironicamente con i ritmi puntati; e brillantissimi sono pure i ballabili del
trionfo egizio offerti al Faraone. Peccato che la banda della Polizia di
Stato non abbia eseguito al meglio la celeberrima ─ e musicalmente insidiosa
─ Marcia, stonando proprio sul famoso intervallo incipitario di quarta, e
palesando successivi problemi sempre con le trombe. Pappano accompagna
eccellentemente i cantanti e gestisce bene i concertati, come il «Su! Del
Nilo al sacro lido» del I atto, o l’attacco portentoso del «Gloria
all’Egitto, ad Iside» e il finale II. Insomma, il gesto di Pappano rifulge
nel contemporaneo plumbeo grigiore del panorama musicale odierno.
L’orchestra fa, al solito, un eccellente lavoro, superandosi per maestria e
bellezza sonora. L’assoluta qualità della performance non è certo inficiata
da qualche lieve imprecisione, come una stonatura del clarinetto basso in si
bemolle sulla ripresa di Radamès nel duetto del IV atto con Amneris. Lo
straordinario coro (Ciro Visco) porta a casa una serata di livello, dando
condegna prova di sé in un’opera molto ‘corale’. Magnifico il retroscenico
«Possente Fthà» del coro femminile (I atto), come il «Chi mai fra gl’inni e
i plausi» (II). Il coro maschile dei sacerdoti è monolitico, implacabile,
cantando talora sul fiato, talaltra con potenza (nella Scena del giudizio di
Radamès del IV atto le due caratteristiche sono evidenti). Indimenticabili i
momenti in cui i due cori si uniscono: si va dalla potenza della scena del
trionfo del finale II, alle delicatezze della scena iniziale dell’atto III.
I cantanti sono di prim’ordine, degni dell’impresa discografica. Beninteso,
non tutto è ottimo: ma, complessivamente, si può dire che la ciambella sia
riuscita col buco. Anja Harteros canta un’Aida dalla bella voce, piena e
espressiva, e fa, grossomodo, tutto bene: peccato solo per la resa di
diversi acuti. Vediamo meglio. Nella Scena e Romanza del I atto, «Ritorna
vincitor!» ci mostra l’arte del suo fraseggio e la compagine ben tornita dei
suoi bassi (quand’è l’ultima volta che un’Aida ha cantato anche le note più
basse?), oltre che un primo assaggio della sua solida tecnica: un filato
magnifico sul la bemolle di «Ah! Non fu in terra mai». Il medesimo controllo
degli effetti espressivi che palesa nel duetto con Amneris (II atto): e qual
fraseggio ragguardevole nella sezione più vivace («Ah pietà!… Che più mi
resta?»). L’atto in cui dà il meglio delle sue possibilità è il terzo, a
cominciare dalla romanza sulle sponde del Nilo: «O cieli azzurri, o dolci
aure native» riesce in tutta la sua innocente purezza, con Pappano che crea
un vapore surreale che sorregge i singulti musicali di Aida, dove la
Harteros trova personalissime delicatezze. A interrompere un perfetto
idillio musicale giunge il do sovracuto in pianissimo, che le esce
metallico, intubato, non perfettamente intonato; un vero peccato, giacché
quell’importante nota costituisce il parossismo del dolore nostalgico di
Aida, una nota tanto emotiva che Verdi ne prescrisse l’esecuzione in
pianissimo, appunto ─ prescrizione, peraltro, quasi mai rispettata dalle
interpreti. I due restanti la naturali, che chiudono la romanza, escono per
fortuna meglio, soprattutto quello finale che si fonde splendidamente col
suono del flauto e dell’oboe. I due duetti successivi (con Amonasro e con
Radamès) sono quanto di meglio la Harteros abbia cantato durante la serata.
Chi, dei presenti, si dimenticherà la casta sensualità profusa nel duetto
con Radames, o con quale inebriante afflato eseguì l’attacco del cantabile
«Là…tra foreste vergini»? E, in modo egualmente egregio, ha chiuso nello
struggente duetto finale «La fatal pietra sovra me si chiuse…», in assoluto
il momento più bello della serata per delicatezza e profonda comprensione
della musica verdiana. Incomprensibile, dunque, il motivo per cui sia stata
vistosamente buata da una cricca dagli spalti di galleria. L’esordio di
Jonas Kaufmann nel ruolo di Radames è attesissimo e ingenera frenetiche
aspettative fin dal suo «Celeste Aida» (I atto), che risolve ─ per la gioia
di tutti ─ in stupende sfumature, in legati sul fiato e in ampie arcate.
Tutta la romanza è sentita e sentimentale, molto intimistica rispetto alla
stereotipica esecuzione cui da troppi anni s’assiste (e questo scrostamento
si deve anche, anzi soprattutto al lavoro di Pappano!); il degno suggello di
questo pezzo di bravura è quel si bemolle sovracuto in pianissimo e in
morendo (Ah! Come ben lo eseguivano Bergonzi o Corelli): peccato qui
Kaufmann allarghi troppo il suono, ridimensionandosi per fortuna dopo e
creando finalmente un filato sfumante. Il suo Radamès è virilmente
impetuoso, giovanile e ardente: lo rendono tale il timbro scuro, che
padroneggia in uno sciolto fraseggio, mai privo di senso, e l’esplosività
dell’emissione. Nella scena della consacrazione delle armi a Vulcano (I
atto), Kaufmann palesa, però, un calo di volume nei concertati (che lo
affliggerà anche nella grande scena del trionfo), pur regalandoci un
bell’acuto finale. Nei tre duetti degli atti III e IV Kaufmann è
straordinario: virilmente innamorato, scandisce, ansante, il tempo d’attacco
del duetto del III con Aida («Nel fiero anelito di nuova guerra») e pregusta
l’impossibile amore nel «Sarai tu il serto della mia gloria, / vivrem beati
d’eterno amor», sfogandosi poi nell’erotica cabaletta. Ancor più virile si
mostra nello scolpire la frase finale dell’atto III, «Sacerdote, io resto a
te»: un plastico furore plasma quegli squillanti la naturali. Dagli irati,
sconsolati accenti del duetto con Amneris, Kaufmann passa alle dolcezze
estreme del duetto finale con Aida, tutto cantato sul fiato, sulla
morbidezza di un suono tenue, ma tornito: così caratterizza gli accenti
disperati nel recitativo («Aida, ove sei tu? Possa tu almeno» ecc.) o
l’angoscioso erotismo del «Morir! Sì pura e bella!». Più di una spanna al di
sotto dei due protagonisti è l’Amneris di Ekaterina Semenchuk: dotata di una
voce poco potente e alquanto povera di armonici, ha un personale stile di
fraseggio, non sempre opportuno alla situazione drammatica. Qualche nota è
cantata troppo indietro, o non perfettamente emessa; nei bassi apre troppo
il suono. Fra i momenti più piacevoli v’è la consegna del vessilo a Radames
(atto I), le frasi musicali in cui perpetra il viperino inganno ai danni di
Aida (II atto) e il duetto con Radames (IV atto). Sgraziato l’attacco di
«Ah! Vieni amor mio, m’inebria» all’inizio dell’atto secondo, come pure
quelli successivi che intervallano gli interventi del coro, dove la
partitura prevede dei pianissimi espressivi. Neanche la scena del giudizio
di Radamès, che pure ha riscosso enorme successo nella platea, può dirsi
realmente e intensamente realizzata nella sua drammaturgia: il dolore di
Amneris che la Semenchuk ci propone è di maniera, fermo nella sclerotizzata
mala tradizione di tante opache epigoni della Stignani o della Cossotto: si
pensi che addirittura accelera le frasi della maledizione ai sacerdoti,
sfumandone il pathos. Il Ramfis di Erwin Schrott è molto virile e poco
ieratico, più baldanzoso che sacerdotale nel senso classico del termine; la
sua voce, che ha nella fascia medio-acuta il suo sfogo prediletto, è
sostanzialmente quella di un baritono prestato alla corda del basso: il
nocciolo chiaro e limpido del suono è inequivocabile. Ma le note ci sono
tutte, mai tirate là a casaccio, mercé l’esperienza di un’ottima carriera.
Proprio questi accenti, naturalmente dirompenti, gli rendono molto
congeniale la scena del tempio di Vulcano (I atto) e quella della condanna
di Radamès (IV atto). Di qualità l’Amonasro di Ludovic Tézier: uno squillo
bronzeo, una voce pastosa e uniforme, un fraseggio nobile e mai forzatamente
impostato, lo rendono ottimo interprete del ruolo. Particolarmente bello il
duetto del III atto con Aida e l’annessa maledizione alla figlia. Marco
Spotti canta un Re gagliardo e poco senile; la sua voce piena e ricca di
armonici, forse un po’ troppo fissa nel fraseggio, si erge implacabile. Il
Messaggero di Paolo Fanale è buono, ma si sfibra leggermente negli acuti,
sebbene il materiale vocale sia di assoluto rispetto. La sacerdotessa di
Donika Mataj è troppo dura nell’emissione, guadagnando certo in potenza
(nient’affatto richiesta nel ruolo) e perdendo in fraseggio: come che sia,
fa il suo dovere. Alla fine della rappresentazione s’è assistito a momenti
di vero festoso delirio. La sala di Santa Cecilia, gremita in ogni
centimetro quadrato, ha osannato in tripudio i suoi beniamini, con un
affetto persino smisurato all’effettiva qualità data nella singola
performance. La spiegazione è, come quasi sempre avviene, più complessa
dell’affetto per i propri idoli. Si era contenti per il solo motivo di
essere lì, presenti a assistere a un evento intelligentemente preparato. Non
avevo mai visto tante persone, di tutte le età, assieparsi sotto il palco
per cercare di toccare i loro ‘eroi musicali’, per dargli un dono, dei fiori
o solo salutarli. In sintesi, abbiamo partecipato a quella che Aristotele
definì una catarsi. |
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