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I Foglio, 01 Marzo 2015 |
di Jacopo Pellegrini |
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Verdi: Aida, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rom, 27. Februar 2015
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L'Aida di miele di Antonio Pappano |
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Il direttore stabile di Santa Cecilia è finalmente tornato at his best |
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Il pennino già intinto nel fiele, arciconvinto
di essere in procinto di ascoltare – al Parco della musica in Roma, per la
stagione di Santa Cecilia – un’“Aida” di Verdi all’insegna dell’effetto
smaccato, dello star system nella sua accezione deteriore (grandi nomi
chiamati a interpretare parti a loro non congeniali), ho dovuto ricredermi,
cambiare calamaio, cospargere pensieri e detti di miele. Se proprio non
volessi o non sapessi rinunciare alla visione more adorniano ‘negativa’ e
alienata della realtà e delle sue manifestazioni concrete (ivi inclusa
la nostra “Aida” in forma di concerto), la scappatoia ci sarebbe, e pure
facile: a che potenza è arrivata la scienza dell’industria (culturale)
nel persuaderci che i suoi campioni sono imbattibili. Ma così non è, il
valore, le virtù del singolo e della collettività (nel nostro caso,
orchestra e coro) esistono tuttora, il loro manifestarsi pubblicamente reca
gioia a chi ne è testimone, trae alimento e forza dalla relativa debolezza
di qualche elemento della catena: l’eccezionalità esaltata a confronto
con la normalità.
E’ stata, questa “Aida”, l’“Aida” di Antonio
Pappano, finalmente tornato at his best. Il direttore stabile di Santa
Cecilia, si sa, è meno versato nella letteratura sinfonica e
sinfonico-vocale rispetto a quella operistica: “Missa solemnis” di
Beethoven, Sinfonia “Faust” di Liszt, Ottava di Bruckner, troppi indizi
della sua estraneità (almeno per adesso) al kern, al nòcciolo del
repertorio per orchestra (l’Ottocento austro-tedesco) ha lasciato in giro
per poterne dubitare. Ma anche con il teatro in musica gli esiti, nelle
ultime stagioni, mi erano sembrati nei casi migliori interlocutori,
parziali: troppa frammentarietà, momenti assai belli, curati e intensi,
alternati a plaghe indifferenziate, con qualche caduta nella sciatteria,
nell’epidermico a suon di decibel e di corse folli. Niente, o quasi, di
tutto ciò in “Aida”, eseguita per una sera soltanto davanti a una sala
stracolma (benché non esaurita), ma tra non molto disponibile anchein CD per
la Warner Classics.
Il quasi consiste nel godimento viscerale che
Pappano prova ogniqualvolta può immergere se stesso e gli altri negli
estremi dinamici, pianissimo e fortissimo, e specialmente a girare la
manovella al massimo della potenza, tre quattro cinque f. L’acustica della
Sala Santa Cecilia, troppo risonante nelle frequenze alte, parecchio sorda
nelle altre, non giova all’equilibrio delle parti, può così accadere che
le voci dei solisti, non tonanti di loro, siano sommerse dai marosi
orchestrali (l’effetto è particolarmente sensibile in platea). Ma da qui
a dedurre – come hanno fatto alcuni a cui evidentemente ascoltare spesso
musica non giova a comprenderla – una esecuzione sì e no nella media,
poco interessante o significativa, esteriore e fin sfacciata ce ne corre.
D’altra parte, in “Aida” assai più che in “Un ballo in maschera” l’ardenza
fonica è una componente essenziale, imprescindibile contraltare
dell’esplorazione nei meandri di anime esulcerate condotta dal compositore
con capillare incisiva spassionata scrupolosità; e poi stavolta il tono
veemente spavaldo impresso dal podio a inni (“Su del Nilo”), marce,
proclami, cori e concertati (Finale II), scoppi strumentali (chiusa degli
Atti I, II e III), era giustificato non soltanto dalla “posizione” (per
ricorrere a un’espressione tipica del lessico verdiano) drammaturgica, ma
pure da una fiamma espressiva intima, non ‘voluta’, apposta a freddo,
bensì ‘sentita’. E’ difficile, se non impossibile spiegare a parole
un’impressione che pertiene ai sensi, a uno stato emozionale: si potrebbe
azzardare che un fluido invisibile passi dall’interprete al pubblico,
catturi la sua attenzione e lo persuada, in rari casi (l’“Aida” di Pappano è
uno di questi) lo travolga: c’è chi la chiama la magia, chi il mistero
dei sommi direttori (o cantanti, o pianisti, o violinisti…).
Eppure,
questa ‘meraviglia’, questa commozione posava (e senza dubbio ne era
rinvigorita) su una visione estremamente lucida e formalmente esatta
dell’opera, nonché – ecco l’aspetto più rilevante, perché non consueto
in Pappano – su un discorso lineare e coerente, senza fratture o zone
opache, asciutto e incisivo. Tutto rilevato a dimensione naturale, che
in “Aida” significa un numero impressionante di dettagli (ritmici, armonici,
timbrici) inseriti in un quadro architettonico ordinato per arcate vaste
(che abbracciano quadri scenici complessi e articolati, quando non un
atto intero: il III) e simmetriche, contrasti dialettici a distanza (luoghi
chiusi e aperti, natura versus civiltà, individui versus potere –
religioso e politico-militare, col primo che, come sempre in Verdi,
condiziona il secondo, soffocando le istanza libertarie dei singoli).
Pappano cementa il suo edificio partendo da elementi minimi, figure
ritmiche ricorrenti o tra loro simili (che, tocco verdiano quant’altri mai,
includono una terzina), pedali armonici di sostegno (una peculiarità di
“Aida”, dove denotano la vastità silente degli spazi desertici, e al tempo
stesso le situazioni bloccate in cui si dibattono i personaggi, la loro
vana aspirazione a fughe impossibili), ovvero sfruttando le macchie di
colore (i moltissimi arabeschi affidati a legni e corni, i violini I divisi,
con i soli dei primi leggii) e i sottili trapassi armonici (duetto
finale), ossia investendo di un peso inedito le tante pause con e senza
corona. La continuità e consequenzialità nella scelta e disposizione dei
tempi scaturisce comunque da una decisione di Verdi, che in “Aida” accorda
una netta preferenza ai metri binari: rinunciando quasi ovunque a
rallentando, stringendo o accelerando di tradizione, rispettando scansione e
articolazione delle frasi e dei segmenti interni, Pappano riassorbe la
vicenda in un unico, grande respiro musicale. Può così permettersi
effetti di rubato assai pertinenti, squisitezze dinamiche timbriche e di
fraseggio (nelle danze, all’inizio del III Atto, nella prima parte del
duetto Amneris-Radamès, ecc.), che ci illuminano sul grado di coscienza
musico-drammatica (dramma inverato in musica) raggiunto a quest’altezza
cronologica (1870) da Verdi.
Se il gesto non infallibile del
direttore ha provocato rari scompensi in orchestra (peraltro in ottima forma
e persino migliorata nel corso della recita), al coro eccellente e alla
compagnia di canto, oltre alla precisione del dettato ritmico, era richiesto
uno sforzo supplementare indirizzato al rispetto delle dinamiche prescritte
dal compositore. Chi ritiene “Aida” un’opera ‘da camera’ in cui
l’elemento pubblico rappresenta una superfetazione inessenziale, una
concessione ai gusti deteriori della ‘plebe’, non sa evidentemente di
cosa parla, ma che l’indagine psicologica vi giochi un ruolo determinante è
innegabile. Questo svariare di sentimenti e stati interiori un cantante
può renderlo attraverso l’accento e, soprattutto, la gradazione delle
intensità: Anja Harteros (Aida), Ludovic Tézier (Amonasro), Erwin Schrott
(Ramfis) hanno voci, per colore e volume, un po’ sottodimensionate alle
richieste dello spartito, ma, ciascuno in base ai propri mezzi e alle
proprie abilità tecniche (non troppo progredite nel basso uruguajo), fa
del suo meglio per soddisfare le richieste di autore e podio. La Harteros,
ottimo soprano lirico di stampo elegiaco, non possiede di Aida che il côté
vittimistico; intimidita dalla scrittura, ha finito con lo steccare
l’ostico do sopracuto di “Cieli azzurri” e per emettere suoni fissi in tutti
gli acuti seguenti (dal la in su). La compagnia annoverava solo due
italiani, e in parti secondarie: Marco Spotti (Il re) e Paolo Fanale (Un
messaggero: in altra occasione mi era parso più bravo); Donika Mataj, un
soprano del coro ceciliano, è stata un’accurata Sacerdotessa.
Ma per
restituire fino in fondo il senso dell’operazione compiuta da Pappano su
“Aida” occorreva, tra i cantanti, almeno un fuoriclasse in grado non solo di
rispettare i dettami di Verdi, ma anche di incarnarli in una figura
infungibile, di trasformarli in teatro, se non proprio di trasfigurarli in
arte immortale. E il fuoriclasse si è trovato in Jonas Kaufmann. Non
avrei mai pensato in vita mia di dover tessere l’elogio del tenore tedesco
in un’opera del repertorio italiano, il suo Cavaradossi, il suo Don
Carlo, il suo Manrico mi parvero (e sono) modesti vocalmente, alieni
stilisticamente. Il suo Radamès, invece, a dispetto di suoni come al solito
ingolfati in basso, di vocali artefatte, di certi acuti spinti da sotto,
può reggere i più alti paragoni: con un canto preciso e interiorizzato, a
tratti impeccabile e limpido e squillante, in qualche frase illuminato
addirittura dal soffio della poesia, ha disegnato il ritratto di un
sognatore imbelle, un debole roso dai dubbi e dai rimorsi, fratello
spirituale dei tanti eroi votati alla sconfitta fioriti nell’età
romantica. Un alter ego meridionale di Lohengrin, personaggio in cui tutti
da sempre hanno ravvisato la riprova della statura extra di Kaufmann.
Almeno sino ad oggi. |
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