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OperaClick, 28/02/2015 |
Michelangelo Pecoraro |
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Verdi: Aida, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rom, 27. Februar 2015
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Roma - Accademia di Santa Cecilia: Aida..."quando le dune sono sul soffitto dell'Auditorium" |
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Nata come appendice alla registrazione di un cd, l'unica recita dal vivo di
Aida all'Auditorium Parco della Musica di Roma in forma di concerto è
diventata rapidamente uno dei più attesi eventi operistici dell'anno,
pubblicizzato – come se il cast internazionale non fosse sufficiente – con
incontri dal vivo e video promozionali. I biglietti, nonostante i prezzi
proibitivi, erano esauriti da tempo.
A rappresentazioni di tal fatta
si va sempre con animo aperto – ottimista o pessimista, a seconda delle
inclinazioni personali – e sensi all'erta, onde cogliere ogni sfumatura
della serata: dalla tradizionale parata delle celebrità in platea, dove il
grado di intimità col potere si coglie dalla vicinanza dei corpi e dalle
espressioni dei presenti, alla parata di celebrità in buca e sul palco,
amate, odiate o trattate con studiata indifferenza. L'attesa è tutta per
l'evento “eccezionale”: si spera in una prestazione straordinaria, in senso
negativo o positivo, e si esasperano poi, nei racconti dei fortunati
presenti, le sensazioni provate.
Dispiace dover constatare che la
recita di Aida ascoltata il 27 febbraio 2015 al Parco della Musica di Roma
abbia mostrato, come quasi sempre, pregi e difetti. Una buona recita,
innegabilmente, con punte di altissima qualità e qualche problema qua e là
di cui, forse, si troverà minor traccia nella registrazione. Di sicuro,
nella registrazione non si troveranno quelle impalpabili emozioni che solo
una serata da tutto esaurito in una sala così magnificente riesce a donare:
un pubblico di appassionati, attenti e silenziosi, che al momento giusto si
lascia andare a imponenti applausi o – e duole dirlo, ma fa parte del gioco
– a contestazioni e grida di “Bravo!” a ripetizione per coprire le
contestazioni. Qualcuno non resiste alla tensione e, nel bel mezzo della
recita, per ben due volte, strilla a gran voce “Caterinaaa!” tentando di
richiamare l'attenzione del mezzosoprano. Alle mie spalle si commenta
goliardicamente: “Però, che bel filato!”.
A ritornare vincitori,
ancora una volta, sono Antonio Pappano, l'Orchestra e il Coro di Santa
Cecilia diretto da Ciro Visco: giocando in casa, questo è vero, ma ricevendo
plausi anche dai più agguerriti melomani che, tra un fischio e l'altro
all'indirizzo di alcuni cantanti, non hanno potuto esimersi dall'applaudire
le compagini ceciliane e il direttore. A partire dal preludio, Pappano ha
chiaramente mostrato di non condividere la scelta, compiuta recentemente in
altri teatri, di mettere in risalto la sola componente intimistica: Aida è
un'opera che vive di chiaroscuri, di perenne ambiguità tra una dimensione
pubblica e una dimensione privata, inestricabilmente intrecciate, e
l'esecuzione – ci dice Pappano – deve restituirne entrambi gli aspetti, per
non snaturarla. Dunque ecco i ballabili, senza ballo ma con tanta cura per
la musica e tanta energia, ecco l'imponenza dei trionfi, con un coro in
forma smagliante a scandire veementemente le grida di morte e guerra con
l'aggiunta della Banda Musicale della Polizia di Stato (che un paio di
notacce le fa sentire, ma complessivamente si inserisce molto bene nel
tessuto orchestrale voluto dal Direttore e, posizionata ai lati della
galleria alle spalle del palco, fa la sua figura), ecco gli affetti e i
turbamenti dei cuori fragili, i delicati violini, le voci sinuose del coro
femminile nell'alcova di Amneris, gli immaginati esotismi di Verdi,
suscitati con pochi arabeschi dei fiati sull'ovattato suono dei violini che
sembrano imitare lo sciabordio del Nilo in una calda e placida nottata, e
gli ardenti furori dei sogni infranti. C'è tutto, forse anche troppo: nella
scena del giudizio del quarto atto il coro e Ramfis sono sul palco e, mentre
il coro almeno canta simulando un effetto sonoro da cripta, Ramfis si pone
prepotentemente in primo piano, alterando completamente la natura della
scena ideata da Verdi. Eppure, precedentemente, si erano ascoltati cori
provenienti dall'alto o dal “dietro le quinte”, come prescritto. Scelta
opinabile che, comunque, non inficia una prestazione maiuscola.
Jonas
Kaufmann debutta nella parte di Radames. Fin dall'inizio molto concentrato,
mostra a partire dal «Celeste Aida» la cifra del suo personaggio: triste
innamorato che, nelle pause tra uno strazio amoroso e l'altro, si ritrova
anche a dover esercitare il ruolo di generale dell'esercito egizio. La voce
di Kaufmann, ormai, la conosce bene qualsiasi melomane, e anche i più
appassionati ammiratori non possono fare a meno di ammettere che suoni
strana, onde le continue accuse di “ingolamento”, e per coloro che la
pensano così nulla potrà valere a convincerli del contrario. Innegabile, in
questa recita, l'effetto “lacrima” incastonato in quasi tutte le battute. Il
gioco però, contrariamente a quanto il buon senso suggerirebbe, funziona: il
carisma e l'espressività di Kaufmann indubbiamente hanno la loro buona parte
di merito, ma il personaggio tratteggiato è credibile e interpretato con
coerenza. Il canto è sul fiato, i pianissimo si alternano agli acuti che,
quando occorre, si sentono eccome. Il meglio di sé, come è facile
immaginarsi, questo Radames lo dà negli ultimi due atti. In particolare, nei
duetti con la propria amata: nel “fiero anelito” non si sentono le trombe
della “nuova guerra”, ma quelle del desiderio per Aida cui finalmente sarà
unito; nella scena finale la voce si muove nel proprio habitat, accompagnata
con grande gentilezza da Pappano e orchestra, e il risultato non può che
essere molto buono.
L'Aida di Anja Harteros, purtroppo, compie il
percorso opposto a quello del proprio partner: parte molto bene, rispettando
al millimetro le prescrizioni della partitura verdiana, forcelle e
pianissimo compresi, emergendo con eleganza nei pezzi d'insieme del primo
atto e ricevendo un convinto plauso per il «Ritorna vincitor!...», in cui la
soffice pasta vocale e l'eccellente fraseggio vengono sfruttati per ottenere
effetti di grande drammaticità, grazie anche all’appropriato e accorto
sostegno del direttore. Bene anche il secondo atto, con dei bellissimi
“Numi, pietà!” e con una bella prova in tutto il duetto con Amneris. Date
queste premesse, era lecito attendersi un'ultima scena al limite della
perfezione. Invece, proprio quando la recita cominciava a volare, la
Harteros è precipitata dall'alto del do dei cieli azzurri, con conseguente
smorzamento smorto, e ha accusato psicologicamente il colpo, visto che da
quel momento gli acuti sono diventati un terno al lotto, alcuni andando,
altri perdendo gli armonici per strada, rimanendo suoni fissi e a volte
fastidiosetti. Al termine della recita, accolta dalla grande maggioranza del
Parco della Musica con convinti applausi, ha ricevuto – come era facile
attendersi – anche sonore buate da parte di alcuni melomani in trasferta.
L'Amneris di Ekaterina Semenchuk è ben cantata, le note ci sono e la
proiezione del suono è buona. Chiunque ricerchi in Amneris belle note e voce
squillante, pur senza l'opulenza vocale di una Stignani o di una Cossotto,
potrà ritenersi soddisfatto dalla “Caterinaaa!”. Sull'altro piatto della
bilancia, però, vanno notati il fraseggio e l'interpretazione piatti e, a
tratti, decisamente privi di mordente, elementi vistosi vicino a interpreti
così a proprio agio nell'emotività della partitura. Un'Amneris classicamente
matronale, insomma, sdegnata e gelosa, monocorde. E difatti la scena del
giudizio, momento di alta drammaticità, scorre via con l'interprete
concentratissima sulle note da emettere, senza che il minimo brivido pervada
la platea, ove esponenti del clero possono godersi tranquillamente il la
(comunque non strepitosissimo) di “Anatema su voi!”.
Stesso discorso
per il Ramfis di Erwin Schrott, concentrato sull'emissione di belle note,
con la non piccola differenza che, da “basso-baritono” quale egli stesso si
definisce, il cantante tende a scurire artificialmente la voce in basso,
specialmente in ruoli come questo, in cui la voce ha bisogno di mostrare una
certa auctoritas. Se la cava comunque più che dignitosamente, aggredendo la
parte con arrembante sicurezza e facendo dimenticare con la propria baldanza
(fisica e vocale) i piccoli difetti che qua e là si intravedono.
Molto bene i due monarchi. L'Amonasro del baritono francese Ludovic Tézier,
oltre a mostrare una voce potente e ben intonata, trova gli accenti giusti
e, con grande gioia del pubblico, si può assistere a un Re etiope che non si
cimenta in linguacce, risatacce e birignao di vario tipo. Splendidi alcuni
momenti, come l'arco vocale e drammatico nei versi “Pensa che un popolo
vinto, straziato, / per te soltanto risorger può” o il canto (non il grido!)
arcigno di “Non sei mia figlia! / Dei faraoni tu sei la schiava!”. Lo stesso
dicasi per Marco Spotti, che canta a voce piena e pastosa la parte del Re,
senza tralasciare l'ottima dizione e il fraseggio curatissimo. Molto bene
anche i comprimari: il giovane tenore Paolo Fanale nei panni del messaggero
e, soprattutto, la splendida Sacerdotessa di Donika Mataj, la cui voce
potente emerge con chiarezza dall'uscita laterale assieme alle voci
femminili del coro.
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