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musica, febbraio 2013
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Stephen Hastings |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, Dezember 2012
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Wagner, Lohengrin |
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A causa dei malanni di stagione è passato un po' di tempo prima che il cast
originariamente scritturato per il Lohengrin inaugurale alla Scalasi
ritrovasse tutto unito in una recita pubblica. Ma quando è successo, il 18
dicembre, si è avuto davvero l'impressione di uno sforzo condiviso (anche
dal coro, tonicissimo, addestrato da Bruno Casoni) nell'intento di far
emergere tutte le stratificazioni umane e spirituali del dramma wagneriano,
nonostante la scelta del regista Claus Guth di limitarsi a una discutibile
lettura di impronta psicanalitica. L'intenzione registica di presentare
Lohengrin come un personaggio tormentato e fragile —che tende a
rannicchiarsi per terra in posizione fetale — è stata messa in discussione
continuamente dalla stessa musica e dal rispetto rigoroso mostrato dal
protagonista Jonas Kaufmann per quanto è scritto sullo spartito. Ogni volta
che apriva bocca, infatti, la serenità superiore della musica si diffondeva
senza riserve mentali. Perché Lohengrin in realtà è il personaggio meno
nevrotico in tutta la Storia dell'Opera, e sebbene Wagner — in a Una
comunicazione ai miei amici» — alludesse a un certo disagio del Cavaliere
del Graal nei confronti del suo status semi-divino, non c'è nulla nella
partitura o negli scritti del compositore che giustifichi la lettura a
schizofrenica » del personaggio proposta da Guth. Così come l'insistenza
forte — e in questo caso poco originale — sul trauma subìto da Elsa dopo la
sparizione del fratello avrebbe potuto alienarle le simpatie del pubblico se
il ruolo fosse stato assegnato a un'interprete meno avvincente di Anja
Harteros.
Queste eccentricità registiche hanno avuto tuttavia un
effetto meno compromettente sull'esito complessivo dello spettacolo di
quanto si potrebbe pensare. Anche perché il bell'impianto scenico disegnato
da Christian Schmidt — un interno ottocentesco a tre piani con una
moltitudine di porte — funzionava molto bene in termini acustici e di
conseguenza rinforzava, grazie alla viva proiezione delle parole cantate, i
significati originali della drammaturgia wagneriana. Mentre la decisione di
spostare l'azione all'epoca della composizione dell'opera (una scorciatoia
molto favorita oggi ma non priva di impedimenti logici) -era almeno in parte
giustificata da un sovrappiù di spontaneità naturalistica. nella recitazione
e dalla spontanea sintonia tra l'idioma musicale e il contesto visivo. Ciò
vale anche per la scena della stanza nuziale all'inizio del terzo atto,
spostata sulle rive del fiume Schelde: la musica di Wagner si sposava
benissimo con la suggestiva evocazione della Natura e Kaufmann e la Harteros
interagivano in modo da rendere intrigante ogni inflessione del loro dialogo
all'aria aperta.
Il tenore è senza rivali oggi come
protagonista di quest'opera ed era commovente sentirlo cantare alla Scala
con una varietà di sfumature dinamiche e una libertà ritmica che ricordava
la sensibilità belcantistica di alcuni grandi interpreti di scuola italiana
di inizio Novecento. E va lodato il direttore Barenboim (che dirige
quest'opera con una naturalezza tanto profonda quanto rara) per avergli
concesso tutto il tempo necessario per tradurre in suoni sofficissimi questa
concezione altamente poetica della parola cantata. «In fernem Land» cantato
da Kaufmann è stato l'esperienza operistica più memorabile offertaci alla
Scala in tutto il 2012. E l'accompagnamento dell'orchestra era pienamente
all'altezza del fraseggio del tenore.
La Harteros non ha un
dominio del registro di testa paragonabile a quello di Kaufmann, ma è
un'artista eccezionalmente ben integrata. Ogni sfumatura emotiva del suo
fraseggio si rispecchia nel volto e nei gesti. E la voce ha una bellezza
snella ed essenziale che evita qualsiasi rischio di compiacimento
edonistico. L'interesse di Guth per la psicologia dei personaggi gli ha
permesso di mettere bene a fuoco la coppia Telramund-Ortrud. La scena tra
marito e moglie all'inizio del secondo atto aveva un'intimità devastante e
bisogna riconoscere che —nonostante qualche ruvidezza vocale — sia il
baritono islandese Tómas Tómasson, sia il soprano tedesco Evelyn Herlitzius
erano perfettamente calati nei loro ruoli. Così come Zeliko Lucic, un Araldo
di franchezza ammirevole, e il grande René Pape, che canta troppo poco in
Italia e che ha conferito a Heinrich (come già in un concerto genovese —
diretto da Pappano — nel 1998) un'autorevolezza ricca di sensibilità. Le
parole risultavano nettissime ma nello stesso tempo saldate da un legato
esemplare ed era affascinante osservare le sue reazioni all'agire altrui,
anche quando il Re non era al centro della scena. Il livello eccelso
raggiunto dalla Scala in ambito wagneriano, nonostante le discontinuità
registiche, viene evidenziato dal confronto con un altro Lohengrin — quello
diretto da Christian Thielemann — alla Semperoper un mese dopo. Naturalmente
la Staatskapelle dispone di uno smalto sonoro ancora superiore, in questo
repertorio, a quello dell'orchestra scaligera, con ottoni quasi insolenti
nel loro virtuosismo impeccabile, unito a una spontanea adesione alla tinta
espressiva di una partitura composta in gran parte proprio in questa città.
Tuttavia, dopo Barenboim, la direzione di Thielemann è sembrata distaccata e
dimostrativa (già nel Preludio l'evidenza data alle voci secondarie rispetto
alla linea melodica tradiva nel maestro un umore un po' perverso), e anche
se l'acustica della sala ci permette (dalla platea) di sentire bene le voci
persino dal fondo della scena, il volume di suono che usciva dalla buca —
specie nei primi due atti — era spesso eccessivo rispetto alle dimensioni di
quelle stesse voci. E nei pur bravissimi strumentisti si avvertiva ben poca
partecipazione emotiva alle vicende sceniche.
L'impianto disegnato da
Peter Heilein — acusticamente efficace — era di nuovo ottocentesca (si
tratta di un allestimento del 1983), ma con molte reminiscenze medievali, e
la regista Christine Mielitz ha avuto il merito di evitare le forzature di
Guth e di farci vedere (senza imbarazzi) quel cigno che fece scatenare la
fantasia di Wagner. Anche lei però ha preferito evidenziare la fragilità
psicologica più che la bellezza (fisica e spirituale) di Elsa, e i costumi e
l'acconciatura della cinquantacinquenne Soile Isokoski nei primi due atti
non erano esattamente calcolati per farci innamorare del personaggio. E se
la voce del soprano finlandese conserva una purezza ammirevole (la tecnica
sembra più ortodossa di quella dell'Harteros), la sua refrattarietà al
portamento le ha impedito di conquistarci con mezzi puramente musicali.
Più generoso di legature è stato il fraseggio di Robert Dean Smith
(classe 1956): un Lohengrin musicalmente ammirevole — pur senza la genialità
di Kaufmann — e molto abile nel mescolare i registri di petto e di testa.
Anche lui però ha sofferto per il taglio, e le tinte, infelici dei costumi e
la sua presenza scenica tendeva a comunicare — soprattutto nei primi due
atti — l'ingenuità non di un puro di spirito ma di un tipico ragazzo del
Midwest (è nato nel Kansas) finito in un mondo che stenta a comprendere.
Wolfgang Koch (Telramund) e Judit Németh (Ortrud) risultavano più in regola
tecnicamente dei loro concorrenti scaligeri, ma più superficiali come
interpreti, anche se il mezzosoprano ungherese — subentrato all'ultimo
momento — ha uno sguardo potente ben adatto al ruolo. Il vociferante
Kwangchul Youn come Heinrich ha fatto apprezzare ancora di più la
sottigliezza aristocratica di Pape.
Questa recita domenicale, molto
buona ma non trascendentale, ha fatto scattare una standing ovation, mentre
alla Scala il pubblico era entusiasta ma più impaziente di tornarsene a
casa. Forse non si rendeva pienamente conto della rarità dell'esperienza
musicale offertagli.
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