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La recensione di Francesco Rapaccioni
 
Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 14. Dezember 2012

LOHENGRIN, UOMO FRAGILE
 
 
Non si poteva che inaugurare con Wagner la stagione della Scala che celebra i bicentenari della nascita di Verdi e Wagner: non si poteva fare altrimenti avendo a disposizione un direttore musicale quale Daniel Barenboim che suona Wagner come nessun altro in questo momento. Verdi verrà dopo e in modo rilevante, ce n’è per tutti i gusti: Falstaff, Nabucco, Macbeth, Oberto, Un ballo in maschera, Don Carlo, Aida (invece per Wagner l’Olandese volante e il Crepuscolo, prima del Ring completo). E non si poteva inaugurare la stagione scaligera se non con uno spettacolo come questo, che obbliga a pensare e ripensare l'opera, a rifletterci sopra a lungo e che ha come riferimento l'affermazione di Theodor Adorno del 1952: “A determinare l'intera azione è la visione di Elsa, in cui essa, sognando, attrae il cavaliere e per così dire tutta l'azione”.

Claus Guth ambienta l’opera alla metà dell’Ottocento, quando Wagner la componeva. La scena di Christian Schmidt crea un luogo all'aperto e al chiuso al tempo stesso, una struttura che utilizza i nuovi materiali dell'epoca in senso reale e immaginifico, naturalistico e antinaturalistico. Una balconata-ballatoio su tre piani circonda il palcoscenico (un po' con effetto casa di ringhiera milanese), i pilastrini sono di acciaio sagomato, le arcate sono di legno come le pareti su cui è stesa a grandi campiture una patina di colore che, illuminata in un certo modo, rimanda a Munch. Presenza costante un pianoforte, come a ricordare la società borghese e il compositore stesso. Nel primo atto al centro un tavolo rettangolare illuminato da un lampadario e un tronco d'albero aggredito dall'edera, nel secondo un grande tappeto rosso, nel terzo un laghetto-palude fra un canneto secco attraversato da una passerella di legno.

In linea con l'epoca i costumi, sempre di Christian Schmidt. L'abito candido per le nozze di Elsa pare sia un espresso omaggio a quello indossato da Claudia Cardinale nel film Il Gattopardo e ha il suo speculare negativo nell'abito nero indossato nella stessa scena da Ortrud. Per il resto Elsa indossa un abito semplice bianco, mentre Ortud, nel duetto con Friederich all'inizio del secondo atto, ha i pantaloni, essendo lei la figura “dominante” nella coppia. Lohengrin è vestito umilmente, sempre a piedi nudi, tranne per il matrimonio, ma non vede l'ora di liberarsi di scarpe e calze e di sciogliere il papillon.
Fondamentali per la riuscita dello spettacolo le luci di Olaf Winter, in grado di rendere il senso di interno-esterno e di focalizzare lo sguardo dello spettatore a seconda delle intenzioni registiche, esaltando l'emozionalità della storia. A completare la parte tecnica le coreografie di Volker Michl.

Il regista, con la collaborazione di Ronny Dietrich per la drammaturgia, esplora i possibili agganci psicanalitici del plot, terreno su cui si è sempre favorevolmente espresso (recentemente a Salisburgo con Le nozze di Figaro e alla Scala con Die Frau ohne Schatten). Elsa, fin da bambina, ha avuto una vita difficile, essendo “colei che viene sempre abbandonata”: ha perso prestissimo i genitori, il tutore si è trasformato nel suo spasimante, viene accusata della scomparsa del fratello e sospettata di omicidio. Per di più viene sottoposta ad angherie da Ortrud: illuminanti le scene della bambina al pianoforte con Ortrud che la corregge nella postura con una bacchetta, oppure il chiudere la tastiera sopra le mani di Elsa oramai adulta. Il desiderio più forte di Elsa è quello di veder apparire un salvatore, immaginato come il fratello: in scena due bambini, lui tiene per mano la sorellina e la conduce avanti con la spada sguainata e una corona di piume in testa, mentre Lohengrin canta “Elsa! Ich liebe dich!”. Elsa ha spesso in mano la giacca del fratello.

Elsa è traumatizzata e fragile, i tic nervosi rivelatori di un disturbo profondo, l'insicurezza facile preda della cattiveria della manipolatrice e perfida Ortrud. Un'Elsa dalla potente immaginazione, unica possibilità fin da bambina per fuggire lontano dalla realtà e per sfuggire alla terribile solitudine della perdita dei cari. Lohengrin le appare dunque come la proiezione dei propri desideri e attese, in una mescolanza con il ricordo del fratello che spesso passa in scena con un braccio trasformato in ala bianca e piumata. Durante il matrimonio Elsa guarda lontano, verso il fratello a cui tende la mano.
Nell'antefatto Ortrud rovescia acqua da uno scarponcino, stesso gesto che nel finale farà Lohengrin: gli scarponcini indossati da Gottfried, finalmente senza ala, nell'ultima scena quando Elsa si rivolge a lui “Mein Gatte!” (mio sposo).

Daniel Barenboim offre una lettura straordinaria di Lohengrin: naturalissimo, fluido, che scorre con una tensione costante ma senza inutili ostentazioni. La partitura è affrontata con precisione analitica, la giusta morbidezza, la raffinatezza e la necessaria forza a seconda dei momenti epici o lirici. Il direttore esalta la trasparenza del preludio, le cupezze del secondo atto, il senso struggente di perdita e di irrecuperabilità del terzo atto. Indimenticabile la tessitura angelica dei violini resa da un'orchestra in stato di grazia, indimenticabile il supporto malinconicamente etereo, sottilissimo, quasi impalpabile di “In fernem Land” ma l'elenco sarebbe lungo e dovrebbe continuare.

Per prassi consolidata siamo abituati ad ascoltare l'Heldentenor con voce chiarissima, quasi cristallina, e con timbro lucente e celestiale. Jonas Kaufmann dimostra invece, col suo timbro scuro, di essere perfetto per il ruolo, probabilmente il migliore possibile. L'emissione è perfetta e non conosce alcuno sforzo; la voce è sicura anche nei passaggi più scomodi. Ma quello che è un vero prodigio, quello che è di perturbante bellezza, è la dolcezza dei pianissimi, la morbidezza di un suono leggerissimo che riempie il teatro e tiene col fiato sospeso, procurando ondate di emozioni irripetibili. A cominciare da “Nur sei bedankt, mein lieber Schwan!” pronunciato di spalle rannicchiato a terra in posizione fetale (una “nascita” più che l'apparizione di un eroe). A finire con l'incanto di un “In fernem Land” di irripetibile intimità e di impressionante forza emotiva grazie all'amplificazione di ogni possibile piega del verso e della partitura resi con un senso magistrale del legato. Questo Lohengrin è confuso e non consapevole del proprio ruolo e del proprio compito. Un uomo cupo e pensieroso, fragile e indifeso, impaurito e in preda a tremori quasi da epilessia. Un eroe che non è “eroe” in senso tradizionale ma che cerca di sapere chi egli sia nel contesto sociale e familiare. Il suo compito, evidentemente, è essere qualcosa/qualcuno per gli altri ma ogni rapporto nasce da un fraintendimento: gli altri lo vedono non come egli sia realmente ma come essi vorrebbero egli fosse. Un Lohengrin addolorato quando si rende conto che non riesce a essere la luce-guida che serve al popolo. Un Lohengrin disperato: l'amore non dura perché, nella coppia, ciascuno immagina l'altro come vorrebbe che fosse e non come davvero è. La pressione psicologica lo annienta: Lohengrin si rende conto che l'attenzione del popolo e di Elsa nascono da un equivoco, da quello che gli altri si aspettano da lui. Gli affetti si infrangono, suo malgrado: la felicità su questa terra è impossibile. Lohengrin non riparte verso “die fernem Land” ma resta a terra, immobile, nella stessa posizione fetale dell'inizio.

Ann Petersen sostituisce l'indisposta Anja Harteros e trasmette a livello scenico con efficacia una Elsa caratterizzata da enormi sensi di colpa causati da presunti fallimenti e dominata da un'ingestibile ansia di abbandono (il funerale del primo atto rende l'idea); una donna fragile e minata nell'anima e nella mente; se gli acuti appaiono un poco tirati e la voce non prodiga di colori, si è apprezzata l'omogeneità della prestazione. Meglio l'Ortrud cattiva e drammatica di Evelyn Herlitzius, motore della vicenda, con la voce possente e le sciabolate verso il registro acuto. Il Friederich di Tòmas Tòmasson è debole pedina nelle mani della moglie ma la voce scura e l'intensità dell'interprete lo rendono un personaggio malvagio di primo piano, pur con qualche vibrato eccessivo. Al confronto appare umanissimo l'Heinrich di René Pape dalla voce morbida ed espressiva, molto paterno e poco “sovrano” per merito di un canto ricco di increspature malinconiche. Zeljko Lucic è l'Araldo, cupissimo nello sguardo (un po' da Scarpia) e adeguato nella voce.

Straordinaria la prestazione del coro preparato da Bruno Casoni, dal quale sono usciti i nobili brabantini (Luigi Albani, Giuseppe Bellanca, Giorgio Valerio, Emidio Guidotti) e i paggi (Lucia Ellis Bertini, Silvia Mapelli, Marzia Castellini, Giovanna Pinardi).

Teatro gremito nonostante la neve, pubblico attento nonostante la lunga durata dello spettacolo, moltissimi entusiastici applausi a scena aperta e un trionfo nel finale con ovazioni per Kaufmann e Barenboim. Da segnalare nel programma di sala il significativo racconto fotografico delle prove, sia in bianco e nero che a colori, di Monika Rittershaus.















 
 
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