Classic Voice
Andrea Estero
 
Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, Dezember 2012

Wagner, Lohengrin *****
 
"La partitura visiva scansa dunque la mitologia eroica per scavare nella dimensione remissiva dei personaggi. E fa bene"
 
Il cigno non si vede, ma è dappertutto. In questo paradosso risiede la chiave d'accesso di uno spettacolo che fuoriesce dalle convenzioni iconografiche della messa inscena wagneriana ma centra il cuore della sua drammaturgia. Lohengrin non è l'eroe splendido in corazza, impenetrabile. Viene ritrovato in città per caso, come quel tal Kaspar Hauser che comparve a Norimberga nel 1828, inconsapevole del suo destino e delle sue origini. Ha le stesse movenze, nervosamente eleganti, di un cigno. E la medesima "ritrosia": quando re e popolo gli chiedono di "scendere in campo" (come dice la nuova, necessaria, traduzione di Quirino Principe), lui - perennemente a piedi nudi - si sottrae, fugge dietro le quinte. Rinuncia. Anche Elsa, la donna che attende l'arrivo del suo salvatore ma che "non deve chiedere mai", incarna gli stessi ideali di bellezza e fragilità sognante, forse malata: candida anch'essa come un cigno. trascorre la sua esistenza in un mondo a parte, stretta intomo alla casa sull'albero dove da piccola giocava insieme al fratellino scomparso. Attende perennemente l'eroe, che si annuncia con una poetica pioggia di piume, presente solo nella sua immaginazione. E Ortrud, la rivale oscura che trama alle loro spalle per riprendersi il potere, è il cigno nero, infido come solo quell'uccello ingannatore - anche nella simbologia medievale - sa essere: fino a vestirsi da Lohengrin pur di plagiare Elsa.

La partitura visiva scansa dunque la mitologia eroica per scavare nella dimensione remissiva dei personaggi. E fa bene. Anche a voler tapparsi le orecchie e a non sentire che musica Wagner ha scritto, fin dal preludio, e messo in bocca ai suoi eroi, basta leggere come racconta la storia in un abbozzo in prosa prodigo di didascalie e annotazioni d'autore, dove la dimensione medievale e cavalleresca sparisce. Per non parlare della "Comunicazione ai miei amici" redatta tre anni dopo la "prima" di Weimar: una riflessione rivelatrice che mette in primo piano il desiderio di Lohengrin di "non voler essere altro che un essere umano, completo, pieno, (...) uomo insomma e non dio", e lascia sullo sfondo la dimensione eroica, muscolare. E tutto questo a pochi mesi dalla scoperta di Schopenhauer.

Delle tre radici teatrali - dramma storico, tragedia e opera fiabesca - Claus Guth mostra di non voler dare troppo importanza alla prima. Sì, un contesto è chiaramente delineato: siamo in quella metà Ottocento in cui Wagner compose l'opera, tra sommovimenti sociali e le restaurazioni militari sollecitate da Re Enrico, qui alter ego di un principe prussiano o di un duca di Sassonia. Ma più che lo scontro politico in atto, con tutte le sue possibili interpretazioni, a Guth interessano i riflessi privati di quella civiltà borghese destinata a trionfare. Dentro la grande casa di un ricco mercante di Germania succedono cose terribili: la bambina che ha perso i genitori smarrisce anche il fratello unico compagno di vita, e viene affidata a due individui perfidi, ambiziosi: una donna, la giovane Ortrud, che la punisce costringendola a implacabili esercizi al pianoforte; un uomo, Telramund, che finisce per desiderarla come amante e sposa. Quest'antefatto è presente in scena come premessa e monito, costantemente ricordato in forma di doppi bambini, che si affiancano ai personaggi reali. Reminiscenze wagnerianamente pertinenti.

Alla fine è normale che quella ragazzina di nome Elsa, ora cresciuta, proietti i frutti della sua immaginazione fervida, romanticamente esaltata, nella figura del suo salvatore. Facendo anche una gran confusione: nell'agognato cavaliere vede il riflesso del fratello. Detta così potrebbe sembrare un'elucubrazione gratuita. Ma l'evidenza e il fascino visivo con cui Guth riesce a raccontare questa vicenda è soggiogante. Elsa, come Senta, resta vittima delle sue stesse ossessioni. Fino alla fine quando, all'addio di Lohengrin, implora "Mio sposo!" rivolgendosi al fratello appena ritrovato. Così il cerchio si chiude, i conti tornano. E il merito lo si deve primariamente a chi ci ha messo la voce e il corpo: Jonas Kaufmann, soprattutto, per la straordinaria invenzione gestuale che rende unico questo eroe-volatile-fragile, in simbiosi con una vocalità inconfondibile nel timbro baritonale capace di linee melodiche soavemente sostenute, di esclamazioni brucianti intonate a tutto tondo e improvvise ritenzioni pronunciate a fior di labbra. Questo Lohengrin è e non potrebbe essere che Kaufmann. Di Elsa, tra malattie e convalescenze, se ne sono avute tre: alla "prima" Annette Dasch, protagonista fuori programma, che vince per la generosità con cui traduce la stralunata eroina, e pareggia sul fronte vocale; mentre la titolare Anija Harteros, s'impone per la vocalità morbida, screziata, ma anche svettante ("alla Kaufmann"), ma dopo venti giorni di assenza forse scorda qualcosa dello spettacolo, rimediando con stucchevoli svenimenti. Ann Petersen, riserva per anteprima e diverse repliche, è una via di mezzo tra le due, comunque di valore. Sfaccettata, felina, con una punta di asprezza nella voce che ne suggella il fascino, la grandiosa Ortrud di Evelyn Herlitzius. Il Re di René Pape alterna momenti di intensa autorevolezza ad altri di monotona fissità, l'Araldo di Zeljko Lucic diventa splendido protagonista. Unico neo lo sgraziato Telramund di Tomass Tomasson, in crescita però nel corso delle repliche. Ma il cast è nel complesso difficilmente eguagliabile.

Come la regia scava nei turbamenti dell'inconscio romantico, così anche la direzione di Barenboim riporta l'opera al clima che la vide nascere. La storicizza. Certo, nel caso del direttore scaligero non parliamo di una sensibilità per i suoni e gli strumenti originali, utile a sbalzare il radicamento del Lohengrin nei generi e nei modi operistici del primo Ottocento, dal belcantismo al grand-opéra. Per Barenboim Wagner è già Wagner fin dall'inizio. E d'altra parte nel Preludio risuona il puro suono del Parsifal e il duetto tra Ortrud e Telramund preannuncia la "prosa" musicale del Ring. Eppure Barenboim sa vedere anche quello che del Lohengrin è peculiare. C'è in questo approccio una speciale attenzione per la parola, cantata, declamata, recitata, che radica l'opera nell'ambito della polemica antimelodrammatica. Basta leggere quello che l'autore raccomanda a Liszt, direttore della prima esecuzione a Weimar, per comprendere l'attenzione che Wagner riservava all'unione di parola e musica in un contesto teatralmente compiuto, quando ancora la mitologia della melodia orchestrale "infinita" e della "scena invisibile" era di là da venire. Se "in un'opera è essenziale l'azione, e questa dipende sovranamente dagli attori sulle scene", "l'or-chestra non dovrebbe essere che un aiuto". Parole di Wagner che Barenboim traduce in una splendida comunione di buca e palcoscenico, condotta con un tempo "giusto" estraneo alle pensose lentezze e ai colmi silenzi del "suo" Tristano. Opera come dramma che si serra nelle grandi scene d'insieme, dove emergono le qualità eccelse del coro della Scala, per fortuna oggi sempre più estese al repertorio internazionale. E dramma come "opera romantica", con un'attenzione agli incantati e talvolta "elfici" timbri strumentali memori di Weber e Schumann, restituiti con ammirevole trasparenza da un'orchestra stavolta di caratura mondiale, e pronti a eccitarsi man mano che il paesaggio fiabesco accoglie quello più tormentato e visionario dell'animo umano.















 
 
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