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Il Corriere Musicale, 8 dicembre 2012 |
Luca Chierici |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Lohengrin alla Scala/1
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Claus Guth, regista dello spettacolo inaugurale della stagione scaligera, propone al pubblico un vero e proprio rompicapo interpretativo che rende molto difficile il districarsi in una foresta fitta di simboli |
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Viviamo in un’epoca in cui la proposta di musica colta – non parliamo
ovviamente di quella a noi contemporanea – è quantitativamente rilevante ma
allo stesso tempo percorre dei binari che, dal punto di vista
interpretativo, sembrano condurre a un punto morto, a una stazione di
parcheggio. Cosa si può dire ancora di nuovo e di diverso su testi che sono
stati scandagliati nei meandri più nascosti? Il quadro non è roseo, e al
massimo ci si può attendere una ripetizione infinita del repertorio ad uso
dell’educazione del pubblico o l’esplorazione dei sentieri meno battuti di
una produzione che si estende (numericamente, ma non solo) ben al di là di
quella correntemente programmata nelle sale da concerto e nei teatri. Ma
appunto il teatro d’opera può contare su un elemento innovativo che oggi non
dipende così strettamente dal titolo rappresentato quanto da un complesso di
fattori che prendono in considerazione le nuove tendenze nell’ambito degli
altri comparti artistici (in primis quello delle arti figurative) ma anche
le evoluzioni della tecnologia, i mutamenti politici, sociali, religiosi, i
metodi della psicanalisi e così via. L’elemento è ovviamente quello della
regia ossia di quella sommatoria di componenti che permettono la traduzione
di un’idea letteraria e musicale nella sua rappresentazione concreta sul
palcoscenico, coadiuvata da opportune scene, costumi, luci, coreografie.
Proprio in un momento di staticità del repertorio teatrale, di difficoltà
nel reperire cantanti e direttori che possano allo stesso tempo riproporre
il meglio di tutta una gloriosa tradizione spesso considerata quale dogma
inconfutabile e introdurre nuovi parametri interpretativi, la regia viene ad
assumere un ruolo sempre più importante, direi quasi decisivo. È ovvio che
questa piccola rivoluzione-evoluzione abbia avuto sin dall’inizio moltissimi
detrattori. Gli argomenti sono i soliti: regia prevaricante, che non
rispetta le didascalie del libretto originale, pone difficoltà
insormontabili a direttori e cantanti, snatura il “significato” dell’opera e
via dicendo. Tanto che si è arrivati al punto estremo di riesumare, le scene
originali e – qualora documentati – i movimenti scenici relativi a
rappresentazioni teatrali storiche. La curiosità di vedere una volta nella
vita una Zauberflöte con la regina Astrifiammante che scende a cavallo di
una mezzaluna o una Walküre con cavalli veri e uno Zauberfeuer realistico è
più che legittima e non è impossibile che si arrivi presto a un teatro di
repertorio che riproponga solamente allestimenti originali d.o.c.
In
questo contesto appare del tutto naturale che il vero protagonista della
rappresentazione di ieri sera del Lohengrin non sia stato né lo splendido
Jonas Kaufmann, affiancato da una Annette Dasch ancora più meritevole per il
fatto di essere stata scritturata all’ultimo momento, né il bravissimo
Daniel Barenboim, quanto quel Claus Guth che ha firmato uno degli
allestimenti più interessanti degli ultimi anni. Interessante proprio perché
ha fatto e farà discutere osservatori attenti che si sono lasciati
felicemente intrappolare dai piccoli o grandi misteri che hanno
caratterizzato la proposta inconsueta del regista. Guth, non fosse stato
sufficiente l’enigma che l’eroe wagneriano pone di fronte ai nobili
brabantini, al re Heinrich, a Elsa e alla coppia iniqua Telramund-Ortrud, ha
pensato bene di proporre al pubblico un vero e proprio rompicapo
interpretativo che rende molto difficile il districarsi in una foresta fitta
di simboli, di significati che richiedono una congrua conoscenza, più che
del contesto storico, della prospettiva psicoanalitica o addirittura di
elementi più diretti tratti dalla pratica psichiatrica. Il voluminoso
programma di sala preparato dal Teatro avrebbe dovuto almeno eguagliare le
proporzioni degli spazi dedicati ai commenti illustrativi, dando molta più
libertà di azione al regista (e allo scenografo Christian Schmidt) accanto
ai pur dottissimi saggi per iniziati che poco avevano a che fare con la
visione che del Lohengrin hanno i primi due.
Guth ha sicuramente
prevaricato, se si ragiona nei termini di quella che può essere stata l’idea
originale di Wagner, intrisa di significati storici e mitici, ma ne ha
sottolineato elementi nascosti che sarebbe stato possibile esaminare
solamente in epoca successiva, ma non per questo estranei al complesso della
vicenda che lega in maniera così articolata i personaggi dell’opera. La
proposta è stata dunque più che legittima e in tal senso è necessario
distinguere tra la validità di una regia e di una scenografia consimili e
quella di tante altre che vengono condotte solamente sulla base della novità
a tutti i costi, priva di elementi che ne giustifichino le fondamenta.
La lettura di Guth e di Schmidt si fonda essenzialmente su due elementi,
quello storico del fallimento degli ideali di rinnovamento che avevano
condotto ai moti del ’48 cui lo stesso Wagner aveva partecipato, e quello
molto più sottile che determina spesso l’infelicità e il fallimento di molti
rapporti interpersonali (di tutti i tipi) ossia la differenza tra le
aspettative che motivano in noi la scelta dell’”altro” e la vera natura
della persona che è oggetto di tale scelta. Con la differenza che, se nella
realtà di tutti i giorni i rapporti interpersonali possono essere
modificati, reindirizzati, avendo ben presente il meccanismo di cui sopra,
nella più angusta realtà teatrale, all’interno della quale tutto dev’essere
compiuto nello spazio di una recita, Lohengrin e Elsa non hanno davvero il
tempo per conoscersi, per capirsi e il finale della storia è come già
scritto fin dall’inizio. Non vi è infatti conciliabilità tra i sentimenti
della fanciulla che cerca il principe delle favole e il cavaliere
apparentemente destinato fin dall’infanzia a salvare la ragazzina di bianco
vestita, ma che è talmente insicuro di sé da porre come condizione
necessaria al rapporto la negazione del suo stesso nome e della sua origine.
Il fatto poi che il contesto abbia suggerito a regista e scenografo certe
forzature, peraltro coerenti con i loro assunti, tali da allontanarci molto
dai significati consueti che il teatro d’opera ci ha insegnato a proposito
del capolavoro wagneriano, è elemento tutto sommato trascurabile. Così
l’infanzia e l’educazione borghese di Elsa con tanto di pianoforte verticale
sul quale ella strimpella nevroticamente per non vedere il dramma che le sta
girando attorno (ma a un certo punto strimpellerà anche Ortrud!) e al fianco
del quale si accovaccia, i probabili desideri incestuosi nei confronti del
fratello-cigno, il rapporto masochistico con il tutore Telramund, tutto un
mondo, insomma, che lei vuole dimenticare attraverso la consacrazione del
matrimonio con il Salvatore venuto dal nulla va di pari passo con la
fragilità dell’eroe, che si presenta fin dall’inizio in posizione fetale,
tremante, a piedi scalzi, affetto da disturbi neurologici di origine
profonda o da disturbi della personalità che lo portano a infliggersi
autopunizioni (i colpi in testa) o a estraniarsi completamente dal contesto
(quando nel momento delle celebrazioni per la sua incoronazione si mette a
camminare in equilibrio su una fila di giacche stese per terra). E nell’ora
suprema della marcia nuziale lei è magnificamente a proprio agio nel suo
splendido abito bianco e coperta di petali odorosi che cadono dall’alto, lui
è goffo e a disagio nei vestiti da cerimonia e in quelle scarpe di vernice
che non può sopportare, vorrebbe fuggire da quel luogo e da quella gente e
viene colto addirittura da un attacco di panico quando si fruga terrorizzato
nel taschino della giacca perché teme di avere perso l’anello di rito.
In base a questa impostazione che, pur discutibile, ha il pregio
comunque di smuovere idee e sentimenti, i ruoli del direttore d’orchestra e
dei cantanti erano subordinati. Per quanto le idee di Barenboim siano state
eccellenti, soprattutto nell’evocazione di certi luoghi del Ring, per quanto
Kaufmann abbia rivelato ancora una volta la sua straordinaria duttilità di
interprete che si piega di fronte a così impegnative direttrici di regia,
questo Lohengrin passerà certamente nella storia della Scala come un momento
di grande ripensamento dello spettacolo inteso in senso tradizionale.
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