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Il Giornale, 09/12/2012 |
Giovanni Gavazzeni |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Kaufmann, cavaliere fuoriclasse - È lui il vero eroe della Scala
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L'edizione del Lohengrin di Richard Wagner che ha inaugurato la stagione della Scala ha sollevato decise perplessità, soprattutto all'indirizzo della regia di Claus Guth, accolto da significativi fischi al termine dello spettacolo. |
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In questi casi i contestatori vengono liquidati come i soliti arretrati che
non capiscono l'innovazione interpretativa, dinosauri che vorrebbero le
scene illustrate come nelle figurine Liebig. A parte che le figurine Liebig
non vanno invocate impropriamente, perché nel loro genere, erano
straordinariamente pittoresche.
È vero però che bisogna distinguere
le regie e le reazioni che innescano. Ci sono fischi generati da totale
repulsione e fischi che nascono quando si incontra qualcosa di diverso,
qualcosa che in qualche modo ti obbliga a riflettere, a ragionare, come nel
caso di Guth. Rimanendo alle più recenti inaugurazioni scaligere, alla prima
categoria appartengono esperimenti come quello della Carmen di Bizet accolta
da unanimi contestazioni di platea e loggione, in cui la regista Emma Dante
oscillava fra provocazioni fini a se stesse e velleitarismi, accompagnata
dalla reclame che ne proclamava preventivamente la genialità.
I
dissensi a Guth rivelano invece un differente disagio, provocato dalla
fatica di capire la mutazione del contesto storico dell'opera e dalla
presenza di particolari anche sgradevoli - certi tremori e tic nervosi che
trasformano Lohengrin in un nolente eroe traumatizzato. In più la rilettura
di Guth necessita da parte del pubblico una preparazione di partenza per
capire trasposizione e sovrapposizioni: non dimentichiamo comunque che è
lecito pure il diritto di seguire uno spettacolo senza l'obbligo di
erudizioni supplementari. Gli «happy few» che hanno capito la chiave
interpretativa di Guth, ne hanno apprezzato la cura teatrale della
recitazione di cantanti e coro. Poi si potrà discettare che il mito era
scomparso, che il clima era più attinente ai salotti onirici di Strindberg
che a quello romantico di Wagner, che Ortruda sembrava l'Elettra in duolo di
O'Neill, ma non si può negare che il tutto è stato pensato e realizzato
coerentemente.
Un elemento è stato decisivo: l'adesione del
protagonista, il fuoriclasse Jonas Kaufmann, al disegno registico. È
difficile immaginare qualche altro collega, magari ventruto o verticalmente
depresso, cantare rannicchiato per terra o con i piedi nell'acqua, aggirarsi
scalzo in pantomime spettrali, indossare il frac nuziale dando quasi il
senso del fastidio per l'abito convenzionale, il tutto con la più sovrana
naturalezza. In Kaufmann, il cavaliere, la recitazione è in perfetto accordo
con il disegno vocale. Da un punto di vista tecnico Kaufmann è qualcosa di
unico: controlla l'emissione illuminando o ombreggiando ogni parola, ogni
frase. Con i pianissimi, le messe di voce, il legato, la musicalità spazza
via la retorica degli effettacci rendendo credibile, vero, umano il
declamato wagneriano. Con questo gioco chiaroscurale Kaufmann ha mostrato
quale ricchezza di sentimenti si cela dietro la maschera dell'eroe.
Lohengrin scende fra gli uomini con i suoi dubbi, le sue paure, le sue
tenerezze, non dimenticando, quando la parte lo richiede, emissioni
gagliarde, squilli virili, invettive brucianti. Senza nulla togliere agli
encomiabili colleghi del cast, la prova di Kaufmann rimane il vertice
assoluto dell'inaugurazione di Sant'Ambrogio.
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