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Operaclick |
Ugo Malasoma |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Milano - Teatro alla Scala: Lohengrin
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Farà discutere per lungo tempo questa apertura della stagione scaligera
2012-2013 e non certo per la innocua polemica sul bicentenario Verdi-Wagner
ma per la messa in scena del regista Claus Guth. L'artista che ci aveva ben
impressionato nella Frau ohne schatten torna alla Scala per questo Lohengrin
con una sua idea registica ricorrente: lo scavo psicanalitico dei
personaggi. Ora, leggendo qua e là le sue note di regia presenti nel
programma di sala, siamo d'accordo in linea di massima sulla coerenza del
concetto espresso, quello cioè di un antieroe, molto poco mistico e molto
più umano e più fragile. Talmente umano da caracollare scalzo per la scena
preda delle proprie emozioni: incerto, deluso, depresso, addolorato,
incapace di essere la “luce” guida di un popolo in fermento. Spesso sdraiato
per terra come schiacciato dalle proprie insicurezze. Durante il duetto
Ortrud-Telramund e nella scena terza del secondo atto, quando il popolo lo
cerca come inviato di Dio, cerca addirittura di scappare dalle
responsabilità incombenti. Ed ancora, talmente umano da uccidere Telramund a
bastonate per poi lavarsi le mani nel laghetto in maniera compulsiva per
placare l'ansia generata dai sensi di colpa. Certo, il “senza patria” è
amato, forse adorato, perchè i suoi stupìti ammiratori lo identificano come
colui che può soddisfare i loro aneliti. Ma è un amore falso, che nasce da
presupposti equivoci, da progetti a cui lui non è preparato. La nevrosi
nasce dalla domanda: “chi sono e che cosa vogliono da me gli altri” e la
pressione psicologica che gli piove addosso finisce per annientarlo. Forse
il cammino accidentato di questo Lohengrin può essere apparentato a quello
di Cristo, più uomo e meno Dio? All'attacco di “ Nun sei bedankt, mein
lieber Schwan!” il protagonista è sdraiato in posizione fetale, circondato
da un popolo stuporoso e commosso, proprio come un Cristo nascente. La scena
finale è speculare: Lohengrin non si allontana verso un inesistente
Monsalvat, ma muore come era nato, e dal suo sacrificio rinasce Gottfried.
Perché se così fosse, questa concezione registica ci potrebbe in qualche
maniera convincere di più, anche se conveniamo essere assai arzigogolata.
Unica speranza di questo non-eroe è l'amore di una donna, fragile come lui,
orfana, ripudiata, bisognosa di essere coccolata e rassicurata, ma talmente
nevrotica ed insicura che finisce per rompere l'incantesimo di un amore
troppo tenero per sembrare terreno. Guth lascia inoltre spazio al dubbio
sulla presunta innocenza di Elsa. Lo stato di confusione mentale, quasi di
delirio e di allucinazione potrebbe lasciar supporre un qualche suo
coinvolgimento nella sparizione del fratello. Del “mondo vero” fanno parte a
pieno titolo Ortrud e Telramund, la “coppia nera”. Lei vittima di
un'infanzia altrettanto cupa e tumultuosa, in cui la perdita del potere da
parte dei genitori – il padre è stato il principe di Frisia – e la rinuncia
forzosa alla propria religione ne fanno per contro una profonda conoscitrice
dell'animo umano, attenta a raggiungere con intelligenza il potere, che usa
in maniera subdola sul marito, circuito più volte e succube. Il povero
Telramund è un manichino totalmente telecomandato, sino ad inginocchiarsi
davanti alla consorte, opportunamente in pantaloni, nel finale del duetto
del secondo atto, prima cioè di ricevere le consegne per l'annientamento
della coppia dei “buoni”. I “cattivi” sono al centro del disegno registico
nel secondo atto, non sono affatto nascosti e reietti, ma meditano vendetta
alla luce del sole. E' Lohengrin invece che spaurito si nasconde dietro il
pianoforte – del resto è il rifugio anche della timida Elsa – elemento
sempre presente in scena, a richiamare l'Autore, non apprezzato abbastanza
dai contemporanei per la sua genialità. L'ambientazione è spostata ai tempi
della composizione dell'opera e qui il popolo vive con fermento i
cambiamenti sociali: lo sviluppo industriale, le prime forme di capitalismo,
le prime rivendicazioni degli operai e la guerra alle porte. La collettività
desidera ardentemente che venga guidata da un'anima forte che la faccia
navigare con sicurezza in queste acque agitate. Si entusiasma sulle prime ma
poi si accorge di aver riposto le proprie speranze sull'uomo sbagliato.
La scenografia a firma di Christian Schmidt è funzionale ad una visione
borghese del dramma. Una grande casa con ballatoi che guardano su un'ampia
sala. Nel primo atto un accenno di giardino porta ad una scala appoggiata ad
un albero con rampicanti, un altro rifugio della giovane Elsa, ossessionata
dall'idea di un “salvatore” che la liberi dai suoi traumi infantili (
raffigurati anche dall'onnipresente Gottfried metà-uomo e metà-cigno), ma
anche luogo del giudizio che sancirà la sua completa innocenza.
Nel
terzo atto, il duetto d'amore si svolge tra i cannetti di un laghetto. I due
sposi si scambiano tenerezze mentre fanno un pediluvio. La stessa scena è il
luogo dove muoiono Lohengrin, resuscita Gottfried, muore annegata Elsa e
anche Ortrud si svena sul cadavere di Telramund. Un bel olocausto finale,
non c'è che dire. I costumi sempre di Christian Schmidt sono eleganti, con
il bianco virginale di Elsa e il nero rigoroso della coppia di “cattivi”. Le
luci di Olaf Winter sono convincenti con un pizzico di brillantezza
all'inizio del terzo atto. La coreografia di Volker Michl si sviluppa in
modo sacrificato tra i ballatoi della casa borghese. Dal punto di vista
musicale le cose ci convincono molto di più. Innanzi tutto per merito della
concertazione di Daniel Barenboim.
Chiarezza analitica, tensione
drammatica, appassionata, fervida e vibrante, tempi larghi ma animati da una
dinamicità inesausta, un evidente equilibrio distribuito tra l'epicità e la
vigoria dei concertati e la trasparenza radiosa dei momenti lirici. Insomma
una concertazione realizzata con raffinata maestria. L'orchestra risponde al
meglio. Meglio anche del recente Siegfried, con la sezione degli ottoni in
grande spolvero. Abbiamo apprezzato ovviamente un preludio primo assai
trasparente, con uno sforzato che cresce con morbidezza e fluidità fino alla
poderosa ma non enfatica affermazione del tema del Graal. Il preludio
secondo ha la cupezza malvagia appropriata dei celli, che dipingono il tema
delle macchinazioni di Ortrud con circolare ripetitività quasi ipnotizzante.
La brillantezza del preludio terzo ha questa sera la valenza dell'ultimo
vero tripudio di festa prima delle tragedie finali. Ma particolare cura il
maestro la dedica agli accompagnamenti degli ariosi di Lohengrin, che
restano a nostro avviso straordinari per sottigliezza e sfumature. Questa
sera nella concertazione notiamo una patina di rassegnata malinconia, una
dolcezza velata, un dolore che alla fine si fa commozione profonda e che
viene poco scalfita dalle reazioni fiere e severe che contrappongono il
protagonista ai “cattivi”. Certo il disegno messo in atto aveva bisogno di
un grande interprete e Kaufmann lo è stato senza alcun dubbio. Meno
ricercato il lirismo che avvolge gli interventi di Elsa ma pregnante è la
continua tensione febbricitante, e ci pare che nello specifico l'idea di
Barenboim non si sia modificata nel corso del tempo. I tragici e foschi
grumi di suono che dipingono Ortrud hanno invece una realizzazione più
compiuta. La sua malvagità è ben più a fuoco musicalmente. Il finale del
primo atto è raffigurato da un esaltante parossismo orchestrale, tra gli
squilli orgogliosi del tema di Lohengrin, l'eccitazione degli ottoni e la
frenesia del coro. Il finale d'opera chiude il cerchio con una altrettanto
mistica ripetizione del tema del Graal, con i violini dalla trasparenza
davvero impalpabile.
Ovviamente Jonas Kaufmann non ha il
timbro argenteo, lucente e radioso di alcuni Lohengrin di lontana memoria,
ma il timbro così scuro non lo vincola più di tanto. Può suscitare legittime
perplessità ma il protagonista ne viene fuori con tutti i crismi.
L'emissione salda sempre sul fiato e il fraseggio sono sottoposti ad un
lavoro continuo di adattamento alle esigenze interpretative. Le sue
mezzevoci qualche volta sono troppo opache e altre volte sconfinano nel
falsetto, anche se sono sempre molto musicali. I chiaroscuri, i piani e i
pianissimi ascoltati nel terzo atto ci hanno commosso. Al proposito facciamo
notare che sono stati tagliati gli interventi da: “ O, Elsa!” a “O König”.
Molti La acuti sono più voluminosi che squillanti e tuttavia Kaufmann canta
Lohengrin con efficace partecipazione. Dai pianissimi di “ Das süsse Lied
Verhallt”, alle mezzevoci di “ In fernem Land”; dall'accorato “ Mein Lieber
Schwan!” al disperato “ Leb' wohl” l'interprete scava come non mai in ogni
anfratto dell'animo del protagonista per trasmetterci una verità forse mai
immaginata: quella cioè di un eroe, o presunto tale, che in effetti è più
fragile di tutti, consapevole di non aver realizzato per nulla ciò che la
collettività si aspettava da lui e di aver deluso la donna che poteva
renderlo felice e toglierlo dal dubbio della sua identità. Un terzo atto da
incorniciare, dunque, in una prestazione appassionata che in lungo e in
largo ci ha lasciati ammirati, come anche nella fiera solennità con cui
affronta nel secondo atto le insinuanti malvagità di Friedrich. Resta però
un dubbio: il suo timbro eroico, così “maschio”, si identifica compiutamente
con il personaggio voluto da Guth?
L'Elsa di Annette Dasch,
bellissima, sostituta dell'ultima ora delle influenzate Anja Harteros e di
Ann Petersen, protagonista dell'anteprima dedicata ai giovani del 4
dicembre, è una straordinaria attrice, coraggiosa nell'impresa di gettarsi
in questa produzione senza prove, ma ha qua e là emissione fissa e tremula.
Gli attacchi, i suoni smorzati e i filati – vedi “Mein Held” o “Mein
Erlöser” – sono scarsamente carezzevoli. Qualche acuto non è ben a fuoco. Il
timbro chiaro si sposa bene con il candore virginale di “Einsam in trüben
Tagen”, altrove però il fraseggio è più generico, come nella placida serena
ingenuità sfoggiata all'inizio del duetto con Ortrud o in “Fühl ich zu dir
so süss mein Herz entbrennen”. Un po' di calore lo insuffla però nella fiera
opposizione alla perfida Ortrud e nell'appassionata inquietudine del duetto
con Lohengrin del terzo atto, concludendo la sua prova con merito.
L'Ortrud di Evelyn Herlitzius non sfoggia emissioni morbide, eleganti e
flessuose, deludente al proposito è “In ferner Einsamkeit des Waldes”. Certe
sciabolate ai La e La # acuti sono al limite dell'urlo. Il vibrato è
pronunciato soprattutto quando il pentagramma sale e le frasi si fanno più
incandescenti, vedi la selvaggia esaltazione nell'invocazione agli dei, il
rabbioso e orgoglioso “Züruck, Elsa!” o l'invettiva finale. In questi
momenti l'emissione appare accidentata, sfibrata e senza appoggio. Meglio
certo nel duetto con Friedrich là dove può giostrare su note più centrali e
meno scoperte, quando cioè deve disegnare una intrigante consigliera,
ironica e velenosa, convincente nel sottomettere il consorte.
Tómas
Tómasson è purtroppo un pessimo Telramund. Il timbro è arido, gli attacchi
sempre aperti, con un vibrato largo che denota sforzo nel tentativo di
apparire dotato di più volume di quel che non ha. Gli acuti sono urlati e
spesso calanti. Con questo approccio al personaggio, tutto rabbia e
risentimento, dimentica di essere un nobile e finisce per cantare tutto
forte senza un briciolo di fraseggio, arrivando esausto e senza voce alla
fine del secondo atto.
L'Heinrich der Vogler di René Pape ha ancora
autorevolezza, accento, carisma da grande artista, ma gli acuti sono proprio
brutti, la pastosità del timbro ha perso ormai la brunita e bella omogeneità
di un tempo. Più convincente come “padre” comprensivo nei riguardi di Elsa,
meno come capo che deve infondere entusiasmo nei propri sudditi.
Zeljko Lucic è un araldo grossolano. L'accento generico non lo identifica
come un degno proclamatore dei dettami reali.
Luigi Albani, Giuseppe
Bellanca, Giorgio Valerio e Emidio Guidotti sono miserini come nobili
brabantini, così come Lucia Ellis Bertini, Silvia Mapelli, Marzia Castellini
e Giovanna Pinardi nella parte dei quattro paggi. Il coro diretto da
Bruno Casoni risponde al difficile compito con grande professionalità, vedi
il solenne raccoglimento nella preghiera del re al primo atto o il
commovente inno di benedizione al secondo atto. Ci pare solo un po' incerto
nel “balbettio” agitato prima della comparsa di Lohengrin al primo atto e
nello stile fugato che caratterizza l'inizio della scena terza del secondo
atto: “In Früh'n versammelt uns der Ruf”. Tra gli applausi calorosi ai
protagonisti si è eseguito alla fine il nostro inno nazionale con
l'intervento del coro assai appassionato. Contestazioni contenute
all'indirizzo di Guth e collaboratori. Buona stagione vecchia Scala.
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