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La Stampa, 08/12/2012 |
Alberto Mattioli
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Lohengrin, il cavaliere della precarietà
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L’eroe fragile di Guth in una prima con due Else malate e in platea un governo in bilico -
Nell’intervallo il premier Monti chiede a Barenboim di suonare l’Inno saltato all’inizio |
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Cominciamo dalla fine: l’Inno. Tutti si aspettavano Mameli subito dopo il
cadaverico defilé dei soliti noti in un foyer che anno dopo anno diventa
sempre più simile al museo delle cere, ma meno vivace, e subito prima di
Wagner. Anzi, di Inni dovevano essercene due: Mameli e il Beethoven
dell’Unione europea in omaggio a José Manuel Barroso atteso nel palco reale
da Mario Monti. Poi Barroso è stato bloccato dalla neve a Bruxelles. Però
insieme all’Inno alla gioia è sparito anche Fratelli d’Italia.
Sorpresa generale. Le versioni sono due. Quella ufficiale diffusa dalla
Scala è che l’Inno è obbligatorio solo se c’è il Presidente della Repubblica
e Giorgio Napolitano, lo si sapeva, è rimasto a Roma al capezzale
dell’Italia. E, visto che la marcetta di Novaro c’azzecca proprio poco con
l’inizio in pianissimo (con due «p») del Preludio del Lohengrin, Daniel
Barenboim avrebbe chiesto a Monti di posticiparlo. Poi, per la serie
incredibile ma vero, c’è la versione vera. Barenbùam è entrato in buca, è
salito sul podio e... si è dimenticato dell’Inno. Il percussionista è
rimasto con le bacchette a mezz’aria sul tamburo. Il maestro si è rivolto
invece ai violini, prendendoli completamente di sorpresa (e infatti non è
che l’attacco sia stato ineccepibile). Comunque alla fine Mameli ha
santificato la festa alla grande, in ritardo ma con anche il coro. Giusto.
L’Inno sta alla prima della Scala come Valentina Cortese: senza, non è la
stessa cosa.
E poi così ha fatto da moltiplicatore agli applausi,
molti e per tutti, con solo qualche telefonatissima contestazione, ma meno
di quella che si poteva temere, al regista Claus Guth, perché è noto che è
molto più semplice fischiare ciò che non si capisce, invece che provare a
ragionarci sopra. Trionfo per Barenboim, trionfissimo per il
protagonista Jonas Kaufmann, che è un ossimoro vivente: tenore e
intelligente, bello e bravo. Nel successo c’è lo spazio anche per
la storia di Annette Dasch, Elsa «last minute». Va premesso che questo
Lohengrin è stato funestato da uno strano virus che colpisce solo le donne
della compagnia di canto e solo i soprani. Il mezzosoprano Evelyn Herlitzius
ne è rimasta indenne e, del resto, se nella vita è tosta come sulla scena,
sono i microbi che devono temere lei. In ogni caso, dopo la generale del 1°
dicembre è finita fuori combattimento la primadonna titolare, Anja Harteros.
Per la primina del 4, è stato chiamato un soprano di rimpiazzo, Ann
Petersen. Ma prima della primona si è ammalata anche lei. Morale: giovedì
pomeriggio la Scala ha chiamato la sostituta della sostituta, appunto la
Dasch, che oltre a essere molto bella ha dei nervi d’acciaio. E’ arrivata a
Milano all’una di notte di ieri, ha provato tutto il giorno allattando il
suo bambino fra una scena e l’altra ed è entrata con assoluta autorevolezza
in una regia complessa come quella di Guth. Non l’ha smontata nemmeno il più
banale degli incidenti di palcoscenico, la crinolina che si impiglia nel
solito chiodo maledetto. Bravissima.
Però la morale di questa prima
è un’altra. E’ la misteriosa capacità del teatro di raccontare, e in questo
caso non un passato favoloso ma un presente difficile, cioè noi, oggi,
adesso, qui. Il Lohengrin di Kaufmann e Guth è, in questo, perfetto. Perché
non è un eroe tutto d’un pezzo, ma un eroe a pezzi. Pronto per il lettino
del dottor Freud. Un eroe fragile, dubbioso, incerto sul futuro: precario.
Precario, alla fine, come la gente che manifesta per qualche buona ragione
fuori della Scala, sotto la neve. Precario come Stéphane Lissner,
sovrintendente in scadenza, che firma il suo Sant’Ambroeus più bello (ma
promette bene anche il prossimo: Traviata con Gatti-Cerniakov-Damrau) e
ospita in sala, insieme, la sua nuova datrice di lavoro, la ministra
francese della Cultura, Aurélie Filippetti e quello che, se in Italia i
politici pensassero, sarebbe il suo successore più indicato, Alexander
Pereira, sovrintendente di Salisburgo (che non a caso trova l’inaugurazione
«impressionate, bellissima»).
Precario, infine, come Mario Monti,
capo di un governo traballante-cadente-quasi caduto, chissà. Del futuro,
oggi più che mai, non c’è certezza. Questo Lohengrin che si guarda
preoccupato alle spalle anche quando conduce l’amata all’altare parla di
noi. Come al solito, il teatro è uno specchio infallibile. Davanti ci siamo
noi: e come siamo, non come crediamo di essere.
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