Londra: dopo oltre un secolo Adriana Lecouvreur torna sulle scene del Covent
Garden, con un poker d'assi vocali, che, a conti fatti, si rivela un tris...
A Londra l'opera più celebre e più riuscita di Cilea, Adriana
Lecouvreur, non si vedeva dal 1906. È naturale così che una parte del
pubblico (che pure riempiva ed esauriva il Covent Garden) e perfino qualche
critico arricciasse il naso. Non si può piacere a tutti, lo sappiamo. Con
tutto il rispetto per chi la pensa diversamente, io trovo che la Giovane
Scuola e in particolare Cilea meritino anche loro un posto che non dovrebbe
però dipendere sempre dai desideri di un determinato artista.
Bisogna
però capire il «canto di conversazione» e, anche se il pubblico non sa
l'italiano, pronunciarlo distintamente; bisogna anche conoscere la tecnica
più adeguata sia per l'emissione del suono che, forse ancora più importante,
per il fraseggio: intendia moci, non è che tutto si deva sempre fare nello
stesso modo ma sembra strano che quando si vuole a tutti i costi recuperare
il «vero» (?) suono del Barocco, Mozart e oltre, per epoche più vicine a noi
e musicalmente meno seducenti per alcuni intellettuali e non pochi snob, non
si cerchi il modo migliore per metterle bene in luce. Si deve sentire in
quest'opera anche l'eleganza massenetiana del balletto del terzo atto e
soprattutto seguire le indicazioni che vengono dal libretto stesso sui
personaggi per poter godere e capire fino in fondo l'«acerba voluttà, dolce
tortura» (le prime parole della Bouillon, ma che forse sono la cifra di
tutta l'opera).
La «riesumazione» di cui ci si occupa (ma l'autore
del programma dovrebbe sapere che l'opera si è mantenuta in repertorio, e
non solo in Italia) era quasi perfetta. Incominciando dalla bella
produzione, alquanto «tradizionale» per i suoi livelli normali, di David
McVicar (cosa che parla bene della sua intelligenza, perchè il profumo
dell'Adriana è un po' come quello delle violette avvelenate e ne risente se
si modificano epoca, costumi, caratteristiche). Forse il busto di Molière
piazzato in mezzo al palcoscenico (che doveva venire spazzato via dagli
inservienti proprio durante l'introduzione del secondo atto) non era del
tutto fortunato, forse Maurizio non dovrebbe risultare così ambiguo nei suoi
rapporti amorosi (è chiaro qui che per lui, alla fin dei conti, la cosa
essenziale è la sua ambizione di potere: bell'idea, ma non so se confortata
della musica che deve cantare). Magnifica invece l'ironia nelle battute tra
abate e principessa del terzo atto e ancora più il balletto (senza cambiare
una virgola, tutto risulta «nuovo» e... disincantato, bella coreografia di
Andrew George e bravi i ballerini).
Bellissimi scene (Charles
Edwards) e costumi (Brigitte Reiffenstuel). Qualcuno si è lamentato per i
due intervalli (un po' lunghi a dire il vero) ma ce n'era proprio bisogno,
così come della lunga pausa (quasi dieci minuti) fra primo e secondo atto. I
tempi saranno cambiati e oggi saremo sicuramente più resistenti, ma gli
autori e i librettisti concepivano musiche e parole anche tenendo conto del
fatto degli intervalli fra atto e atto, fra quadro e quadro.
Il
maestro Mark Elder non è la prima volta che dimostra la sua affinità e
capacità per il repertorio italiano, ma per questo titolo, particolarmente
difficile come si è detto, la sua capacità per far «parlare» e«cantare
l'eccellente Orchestra del Teatro è stata una benedizione: meritatissimi gli
applausi prima del quarto atto e alla fine. Il Coro preparato da Renato
Balsadonna dava il suo contributo nel terzo atto con la sua ormai scontata
bravura. Bene i comprimari con un cenno al Quinault de David Soar. Maurizio
Muraro (di voce risonante) e Bonaventura Bottone (magnifico dicitore)
incarnavano molto bene il despotico e poco educato Principe e il viscido
Abate.
Tra i quattro principali interpreti credo di dovere citare
innanzitutto Olga Borodina, una Bouillon di grande voce e veemente
espressività, all'interno sempre di una linea aristocratica (si tratta di
una principessa dopo tutto), tecnica perfetta, buon italiano, che se adesso
ha un grave ancora più ricco di una volta conserva l'acuto, benché il colore
si alteri leggermente e il mezzosoprano sorvegli molto l'emissione:
comunque, grande voce e grande cantante, che come si sa non sempre sono lo
stesso. Meritatamente l'ovazione più lunga a sipario aperto è stata per lei.
L'insolenza nel canto e la capacità per i suoni filati e le
smorzature erano le armi vocali di un Jonas Kaufmann in stato di grazia
(sempre con qualche suono fisso): bella presenza, italiano da manuale e
attore capace di seguire la strada indicata dal regista: capace di fare
interessante un pezzo come il racconto del terzo atto (difficile quanto mai
ma non proprio di grande sostanza musicale); brillava nelle due brevi ma
importanti romanze e nei duetti con le rivali (particolarmente riuscito il
«No, più nobile»), ma se io dovessi scegliere un momento privilegiato
sarebbe il suo «morta» che chiude l'opera perché in queste «piccole» frasi o
parole si scopre il grande artista (mi ha fatto pensare alla stessa frase
dell'Alvaro verdiano, ma spero che il tenore aspetti un attimo prima di
pensarci anch'esso).
Michonnet era Alessandro Corbelli,
sinonimo della grande scuola italiana: non solo si capiva ogni parola, ma a
ciascuna dava il peso voluto, fraseggiava in modo quasi miracoloso e gli
riusciva così di fare un personaggio a tutto tondo, non essendo «a priori»
la sua vocalità quella più adatta alla parte (gli acuti del primo atto
venivano con l'aiuto della tecnica).
E appunto è qui che i conti non
tornano per Angela Gheorghiu, osannata dalla critica ma che durante la
recita non ha avuto grandi applausi salvo a spettacolo finito. Non è che
abbia cantato male, ma molte volte non si capiva quanto di ceva, altre (e
malgrado Elder e i colleghi) veniva coperta dall'orchestra o dalle altri
voci. Si tratta sempre di un soprano lirico di buoni acuti (calante però
quello che chiudeva l'aria di sortita, piuttosto sussurrata che cantata) e
belle mezze voci - meno limpide di una volta - che quando la parte glielo
consente ottiene buoni risultati (da «Poveri fiori» fino alla fine, non
compresa la breve ma importante scena del delirio «Scostatevi profani»), ma
«accento, simplicità, profonda, umana» (Michonnet dixit) o «quella voce
che carezza e uccide, quella voce di scherno e di furore» (Bouillon) proprio
erano inesistenti. Abbiamo avuto una diva di oggi, bella e simpatica, forse
un po' frivola, che purtroppo, arrivata al monologo di Fedra, decideva di
fare sul serio non avendo assolutamente né i mezzi né l'arte (e l'applauso
alla fine del terzo atto è stato giustamente il più debole di tutta la
serata). Forse è stato un vantaggio che l'opera non si ascoltasse da più
di un secolo, ma chi crede di aver visto adesso una grande Lecouvreur
sbaglia: mancava «soltanto» la grande protagonista.
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