L'opera, 1/2011
di Jorge Binaghi
 
Ciléa: Adriana Lecouvreur, Royal Opera House, 18 November 2010
 
Acerba voluttà

Londra: dopo oltre un secolo Adriana Lecouvreur torna sulle scene del Covent Garden, con un poker d'assi vocali, che, a conti fatti, si rivela un tris...

A Londra l'opera più celebre e più riuscita di Cilea, Adriana Lecouvreur, non si vedeva dal 1906. È naturale così che una parte del pubblico (che pure riempiva ed esauriva il Covent Garden) e perfino qualche critico arricciasse il naso. Non si può piacere a tutti, lo sappiamo. Con tutto il rispetto per chi la pensa diversamente, io trovo che la Giovane Scuola e in particolare Cilea meritino anche loro un posto che non dovrebbe però dipendere sempre dai desideri di un determinato artista.

Bisogna però capire il «canto di conversazione» e, anche se il pubblico non sa l'italiano, pronunciarlo distintamente; bisogna anche conoscere la tecnica più adeguata sia per l'emissione del suono che, forse ancora più importante, per il fraseggio: intendia moci, non è che tutto si deva sempre fare nello stesso modo ma sembra strano che quando si vuole a tutti i costi recuperare il «vero» (?) suono del Barocco, Mozart e oltre, per epoche più vicine a noi e musicalmente meno seducenti per alcuni intellettuali e non pochi snob, non si cerchi il modo migliore per metterle bene in luce. Si deve sentire in quest'opera anche l'eleganza massenetiana del balletto del terzo atto e soprattutto seguire le
indicazioni che vengono dal libretto stesso sui personaggi per poter godere e capire fino in fondo l'«acerba voluttà, dolce tortura» (le prime parole della Bouillon, ma che forse sono la cifra di tutta l'opera).

La «riesumazione» di cui ci si occupa (ma l'autore del programma dovrebbe sapere che l'opera si è mantenuta in repertorio, e non solo in Italia) era quasi perfetta. Incominciando dalla bella produzione, alquanto «tradizionale» per i suoi livelli normali, di David McVicar (cosa che parla bene della sua intelligenza, perchè il profumo dell'Adriana è un po' come quello delle violette avvelenate e ne risente se si modificano epoca, costumi, caratteristiche). Forse il busto di Molière piazzato in mezzo al palcoscenico (che doveva venire spazzato via dagli inservienti proprio durante l'introduzione del secondo atto) non era del tutto fortunato, forse Maurizio non dovrebbe risultare così ambiguo nei suoi rapporti amorosi (è chiaro qui che per lui, alla fin dei conti, la cosa essenziale è la sua ambizione di potere: bell'idea, ma non so se confortata della musica che deve cantare). Magnifica invece l'ironia nelle battute tra abate e principessa del terzo atto e ancora più il balletto (senza cambiare una virgola, tutto risulta «nuovo» e... disincantato, bella coreografia di Andrew George e bravi i ballerini).

Bellissimi scene (Charles Edwards) e costumi (Brigitte Reiffenstuel). Qualcuno si è lamentato per i due intervalli (un po' lunghi a dire il vero) ma ce n'era proprio bisogno, così come della lunga pausa (quasi dieci minuti) fra primo e secondo atto. I tempi saranno cambiati e oggi saremo sicuramente più resistenti, ma gli autori e i librettisti concepivano musiche e parole anche tenendo conto del fatto degli intervalli fra atto e atto, fra quadro e quadro.

Il maestro Mark Elder non è la prima volta che dimostra la sua affinità e capacità per il repertorio italiano, ma per questo titolo, particolarmente difficile come si è detto, la sua capacità per far «parlare» e«cantare l'eccellente Orchestra del Teatro è stata una benedizione: meritatissimi gli applausi prima del quarto atto e alla fine. Il Coro preparato da Renato Balsadonna dava il suo contributo nel terzo atto con la sua ormai scontata bravura. Bene i comprimari con un cenno al Quinault de David Soar. Maurizio Muraro (di voce risonante) e Bonaventura Bottone (magnifico dicitore) incarnavano molto bene il despotico e poco educato Principe e il viscido Abate.

Tra i quattro principali interpreti credo di dovere citare innanzitutto Olga Borodina, una Bouillon di grande voce e veemente espressività, all'interno sempre di una linea aristocratica (si tratta di una principessa dopo tutto), tecnica perfetta, buon italiano, che se adesso ha un grave ancora più ricco di una volta conserva l'acuto, benché il colore si alteri leggermente e il mezzosoprano sorvegli molto l'emissione: comunque, grande voce e grande cantante, che come si sa non sempre sono lo stesso. Meritatamente l'ovazione più lunga a sipario aperto è stata per lei.

L'insolenza nel canto e la capacità per i suoni filati e le smorzature erano le armi vocali di un Jonas Kaufmann in stato di grazia (sempre con qualche suono fisso): bella presenza, italiano da manuale e attore capace di seguire la strada indicata dal regista: capace di fare interessante un pezzo come il racconto del terzo atto (difficile quanto mai ma non proprio di grande sostanza musicale); brillava nelle due brevi ma importanti romanze e nei duetti con le rivali (particolarmente riuscito il «No, più nobile»), ma se io dovessi scegliere un momento privilegiato sarebbe il suo «morta» che chiude l'opera perché in queste «piccole» frasi o parole si scopre il grande artista (mi ha fatto pensare alla stessa frase dell'Alvaro verdiano, ma spero che il tenore aspetti un attimo prima di pensarci anch'esso).

Michonnet era Alessandro Corbelli, sinonimo della grande scuola italiana: non solo si capiva ogni parola, ma a ciascuna dava il peso voluto, fraseggiava in modo quasi miracoloso e gli riusciva così di fare un personaggio a tutto tondo, non essendo «a priori» la sua vocalità quella più adatta alla parte (gli acuti del primo atto venivano con l'aiuto della tecnica).

E appunto è qui che i conti non tornano per Angela Gheorghiu, osannata dalla critica ma che durante la recita non ha avuto grandi applausi salvo a spettacolo finito. Non è che abbia cantato male, ma molte volte non si capiva quanto di
ceva, altre (e malgrado Elder e i colleghi) veniva coperta dall'orchestra o dalle altri voci. Si tratta sempre di un soprano lirico di buoni acuti (calante però quello che chiudeva l'aria di sortita, piuttosto sussurrata che cantata) e belle mezze voci - meno limpide di una volta - che quando la parte glielo consente ottiene buoni risultati (da «Poveri fiori» fino alla fine, non compresa la breve ma importante scena del delirio «Scostatevi profani»), ma «accento,
simplicità, profonda, umana» (Michonnet dixit) o «quella voce che carezza e uccide, quella voce di scherno e di furore» (Bouillon) proprio erano inesistenti. Abbiamo avuto una diva di oggi, bella e simpatica, forse un po' frivola, che purtroppo, arrivata al monologo di Fedra, decideva di fare sul serio non avendo assolutamente né i mezzi né l'arte (e l'applauso alla fine del terzo atto è stato giustamente il più debole di tutta la serata).
Forse è stato un vantaggio che l'opera non si ascoltasse da più di un secolo, ma chi crede di aver visto adesso una grande Lecouvreur sbaglia: mancava «soltanto» la grande protagonista.






 
 
  www.jkaufmann.info back top