L'opera, 1/2010
Nicola Salmoiraghi
Bizét, Carmen, Mailand, 10. Dezember 2009
Da qualche parte ai confini della notte e del nulla
 
 

Milano: la nuova stagione del Teatro alla Scala inaugurata da una bellissima edizione di Carmen, con le regia simbolica e fortemente teatrale di Emma Dante, la personalissima e affascinante concertazione di Daniel Barenboim e le splendide prove vocali di Jonas Kaufmann, Erwin Schrott e dalla giovane «deb» Anita Rachvelishvili 

Le stagione 2009/10 del Teatro alla Scala si è inaugurata con una bellissima edizione di Carmen accolta da un successo trionfale a parte le - immotivate – contestazioni alla regia. Andiamo con ordine: si è scelta la versione «opéra-comique» con i dialoghi parlati. I dialoghi in realtà sono stati sin troppo «sforbiciati», tra cui l'importante momento del primo atto in cui Don José racconta di essere un ex seminarista che ha abbandonato gli studi religiosi e la città natale per un episodio di violenza. In un contesto come quello di questa regia sarebbe stato fondamentale far comprendere l'aspetto introverso, complessato e potenzialmente pericoloso dell'uomo, vessato da una madre opprimente e dai diktat incombenti di un soffocante cattolicesimo. 

Sul podio dell'Orchestra scaligera, ad un livello di eccellenza assoluta, Daniel Barenboim ha offerto una lettura magnifica e personalissima del capolavoro di Bizet. Su tutta la partitura, secondo Barenboim, incombe l'ombra scura e luttuosa del destino e anche i momenti più brillanti si tingono di ansiosa tragicità. È incredibile la tavolozza di colori e sfumature che il maestro argentino riesce ad offrire: il respiro degli slarghi sinfonici si tinge di tutta la morbida e voluttuosa ansia di sfinimento che pervade la musica a cavallo tra Otto e Novecento, e, come è tipico della visione musicale di Barenboim (vedi Requiem nelle pagine seguenti), anche Carmen fa parte del grande arazzo della musica europea di questo periodo, con un piede ancora nel passato, ma gli occhi e il cuore già proiettati verso il futuro. Diversi tasselli che compongono il mosaico di un lucido e affascinante discorso interpretativo unitario. I trepidi e notturni brividi, pervasi di sfuggente inquietudine, di certi accompagnamenti dei momenti più celebri («La fleur» ma anche l'«Aria delle carte», resa con il passo di una raggelante marcia funebre) resteranno a lungo impressi nell'animo dell'ascoltatore. 

Il ruolo della protagonista era sostenuto da una venticinquenne georgiana proveniente dall'Accademia del Teatro, Anita Rachvelishvili. Poteva essere una scommessa pericolosa, invece pienamente vinta. Questa ragazza possiede una voce portentosa, un vero tesoro di cui aver molta cura, con scelte oculate e sagge nel periodo che verrà dopo questa improvvisa notorietà con relativa sbornia mediatica. 

Anita possiede bellissima voce mezzosopranile, ampia, risonante, di colore ambrato e già gestita assai sapientemente del punto di vista tecnico. Mai nessuna foratura, mai nessuna inutile esagerazione stilistica. Si avverte che la giovane cantante si è preparata molto seriamente a questo importante debutto, e ciò è evidente dalia cura posta nel fraseggio e nelle nuances espressive. La sua è una Carmen corposa, intensa, forte, drammatica, sino a giungere ad una vera e propria dimensione tragica. Scenicamente non avrà forse la figura ideale, ma con la sua massa di capelli neri e la sua imponente fisicità, perfettamente calata in questa Carmen del Sud, così carnale elegata alla terra, era perfetta e la sensualità del ruolo passava direttamente attraverso una voce, che, se ben gestita, sarà una di quelle di cui sentiremo parlare a lungo negli anni a venire.

Prodigioso, senza mezzi termini, il Don José di Jonas Kaufmann. Il cantante tedesco è senza ombra di dubbio uno dei più grandi tenori odierni. La sua incarnazione del personaggio èstata memorabile. Una voce scura, dalle risonanze baritonali, ma capace di acuti fulminanti
come lame d'argento, che trova no spazio in una rete di dettagli espressivi, di ombreggiature, di mezzevoci strepitose (le smorzature de «La fleur» sarebbero state da applausi a scena aperta) che rappresentano il biglietto da visita di un indiscutibile fuoriclasse del canto. L'interprete, l'attore, il fraseggiatore, poi, sono «tout court» emozionanti. Il più completo, autentico e plausibile Don José, oggi.

Erwin Schrott, poi, è un Escamillo pressoché ideale. Del «toréro de Grenade» il giovane basso uruguayano possiede l'insolente presenza scenica, la voce pastosa, e ben proiettata, lo slancio in acuto, l'omogeneità in tutta la gamma, pur in questo ruolo scomodo che mette in difficoltà un po' tutti i suoi interpreti, diviso com'è tra due registri vocali. Di suo Schrott aggiunge la naturale capacità d'attore, di «dire», caricandola d'intenzioni e accentandola a dovere, sia la parola scenica che quella cantata, l'ampiezza e le timbratura di un organo vocale, che, tra 1e ultime generazioni della sua corda vocale, conosce pochissimi confronti.

Adriana Damato, come Micaéla, rappresentava l'anello debole della catena. Voce di grana indecifrabile, tra il leggero, il lirico e il lirico-spinto, con tutte le disuguaglianze del caso, il soprano, al di là di un approccio volonteroso, ha mostrato troppe falle nell'emissione, talvolta nell'intonazione, nella gestione di acuti spesso asprigni e nel sostegno del fiato, decisamente a corta gittata.

Molto buone la Mércédès di Adriana Kucerova, e, soprattutto, la squillante e argentina Frasquita di Michele Losier. Di vario livello, comunque non indimenticabile,fatta eccezione per il convincente Zuniga di Gabor Bretz, l'apporto dei restanti comprimari: Francis Dudziak (Le Dancaire) e Rodolphe Briand (Le Remendado), Mathias Hausmann(Moralès), Perla Viviana Cigolini (Mercante d'aranci), Lorenzo B.Tedone (Uno zingaro).

Divertentissimo il cameo del Lillas Pastia giovanile e ipercinetico dell'attore Gabriel Da Costa. Nel ruolo dell'onnipresente Prete Guida, Carmine Maringola.

Sensazionale, senzamezzi termini, l'apporto del Coro scaligero preparato da Bruno Casoni, così come quello del validissimo Coro-di Voci Bianche del Teatro alla Scala e del Conservatorio «G.Verdi» di Milano, diretto da Alfonso Caiani.

Non resta che parlare della regia, intelligente, simbolica e di forte impatto teatrale di Emma Dante - contestata rumorosamente alla «prima», ma anche fatta segno di consensi accesissimi e convinti - coadiuvata dalla presenza dei bravissimi attori della sua «Compagnia Sud Costa Occidentale» e dagli allievi della Scuola di Ballo della Scala.

Emma Dante - autrice anche dei costumi, azzeccatissimi nel clima dello spettacolo, mentre le scenografie essenziali, spoglie e per questo di ancor più forte impatto drammatico, erano firmate da Richard Peduzzi - ha immaginato un Sud dell'anima e del mondo quasi metafisico, alla De Chirico, benissimo illuminato dalle luci di Dominique Bruguière.

In questo universo arcaico fatto di superstizioni, incombono simboli religiosi a testimoniare una società dominata dalla religione cattolica intesa nel suo senso repressivo e inibente. La stessa Micaéla, in abito double Face nero - per il dolore della lontananza di Josè e la malattia della «suocera» - e bianco (il sogno di sposare finalmente l'uomo che le è destinato) è sempre seguita da un prete, che salvaguarda la sua «integrità» e pronto ad officiare la cerimonia, e da due chierichetti.

Non c'è un solo calo di tensione drammatica nello spettacolo, che vive di continue e profonde invenzioni registiche e i momenti da ricordare sono molti.

Nel primo atto il coro dei bambini, trasformati in piccoli soldati irregimentati, seguiti dai ragazzi che diverranno, pronti per morire, che recano sulle spalle altri bambini in mutande e scalzi, che poi scappano giocando, anime libere e pure dell'infanzia, mentre il loro doppio «adulto» cade a terra; l'uscita delle sigaraie dalla manifattura di tabacchi, con gli scuri abiti da lavoro che le fanno somigliare a delle monache e che restano a poco a poco in sottoveste mentre si rinfrescano nella fontana della piazza, cosparsa dei fiori che recano in bocca e che poi diventeranno girandola multicolore intorno a Carmen che intona l' Habanera; la stessa Carmen seguita sempre, nel corso dell'opera, da cinque bambine, sorta di «figlie» e proiezioni di se stessa, che addestra al mestiere di «gitane», testimoni del suo tragico destino; la seconda parte del duetto Don José-Micaéla, con lei in abito bianco inginocchiata a terra coperta da un grande velo, desiderio di un matrimonio che mai ci sarà; la «Séguedille» con due lunghe funi che imprigionano, più che Carmen, lo stesso Don José, come i fili di una ragnatela mortale tessuta dalla zingara.

Nel secondo atto l'apparizione trionfale di Escamillo seguito da fantasmatiche figure in bianco, che ricordano la Vergine della Macarena, mascherate e ingioiellate: la corte del toreador, le aristocratiche che lo adorano e non vogliono tarsi riconoscere.

II terzo atto, poi, è da antologia: i contrabbandieri «travestiti da alberi in uno spazio spoglio e silenzioso, da qualche parte ai confini della notte e del nulla; I'«aria delle carte», funebre canto di morte, vede tutti i contrabandieri sdraiati mentre un gruppo di parche nero-velate, così simili alle prefiche urlanti di certe processioni del nostro Sud, depongono tra i corpi piccole croci bianche, rendendo l'accampamento il cimitero dell'anima di Carmen; il duello tra Escamillo e Don José è da togliere il fiato, scandito sui ritmi della danza di morte della corrida, mentre addirittura geniale è l'apparizione di Micaéla: con i capelli ingrigiti, nella frase finale della sua invo-cazione, «Hélas! José, ta mère se meurt... et ta mère ne voudrai pas mourir sans t'avoir pardonné», la donna si trasforma nella madre morente, stesa in un enorme letto bianco. I due volti della stessa donna, le anime «castratrici» e colpevolizzanti del frustrato José.

Il quarto atto vive del drammatico, disperato - e commovente- confronto finale tra Carmen e il suo carnefice. L'uomo, come tutti i deboli che non sanno imporsi, diventa aggressivo e brutale, cerca ripetutamente di violentarla. Sarà lei, conscia che la fine è inevitabile e in un certo senso liberatoria, a porgergli il coltello che la ucciderà e finira sgozzata tra le braccia delle donne in nero, mentre Don José si sporca il volto del sangue della vittima e sulla scena passa il medesimo catafalco Funebre che aveva attraversato il palco all'inizio del primo atto.

Grande, autentico, emozionante teatro.
Alla seconda recita successo clamoroso, con dieci minuti di applausi: trionfo personale per Kaufmann, acclamazioni per Anita Rachvelishvili e per Schrott, qualche isolato «buh» per la Damato.

Barenboim sugli scudi e lui esce ancora una volta abbracciato ad Emma Dante, come alla «prima». Ancora molte contestazioni, ma questa volta i consensi e le grida di «brava!», da tutti i settori del Teatro, sono in maggioranza. Volentieri ci associamo. (10 dicembre)

 

 

 

 






 
 
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