Teatro.org, 08 dic 2009
Francesco Rapaccioni
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
Emma, Carmen e Medea
 
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 13 dicembre 2009
 
Emma Dante debutta nella lirica e lo fa dal gradino più alto, lo spettacolo inaugurale della stagione scaligera, dopo numerose prove nella prosa, tanti premi vinti e un'incursione nella scrittura (“Via Castellana Bandiera” pubblicato da Rizzoli). La sua Carmen è ribelle per natura, come le eroine greche, che inseguono libertà e amore fino alla morte. Come Medea, georgiana come la rivelazione Anita Rachvelishvili.

Carmen vive in un sud arido e metafisico, intriso di un cattolicesimo che coniuga fede e superstizione, religione e folklore. La scena di Richard Peduzzi rimanda a piazze dechirichiane, alti muri di mattoni rossastri oppure grigi che si aprono e si chiudono a delimitare gli spazi richiesti dal libretto, illuminati con sapienza da Dominique Bruguière in toni caldi, per lo più crepuscolari. I costumi (della stessa Emma Dante) situano l'azione nell'Ottocento e sono particolarmente curati nei dettagli. La regista immagina una situazione classica di ogni “sud”, con la popolazione che partecipa alla vita di alcuni, le piazze piene di uomini nullafacenti con la coppola in testa seduti su sedie di legno. E il peso opprimente di una religiosità che, anziché essere via di salvezza, diventa modalità di compressione delle vite e degli animi.

Le azioni si svolgono spesso in proscenio per consentire controscene affollate. Lo spettacolo è di grande impatto e forza comunicativa.

La vicenda mescola amore e morte, sotto la cappa della religione. Il presagio di morte aleggia nell'aria, tanto che in apertura un corteo funebre sfila con flagellanti e prefiche in una piazza popolata da gente di paese e da pulitori di tappeti. Micaëla ha i capelli scuri e legati a crocchia, è chiusa in una veste nera a mo' di sacco che non le consente neppure di tirar fuori braccia e mani ed è accompagnata da un prete in tonaca nera con cappello dall'ampia tesa e due chierichetti che reggono una croce. I soldati sfilano recando sulle spalle, invece degli zaini, dei ragazzini (l'infanzia lontana, l'innocenza perduta), che poi sgambettano via in mutande facendo allegre capriole, mentre gli uomini si infilano le giacche delle divise. Sono le donne che esprimono una gioiosa vitalità, un'esuberanza piena di energia: la libertà che Carmen canta e cerca. Le sigaraie escono dalla manifattura tabacchi in fila per due con un fiore in bocca, come monache verso la preghiera, e lanciano i fiori nella fontana. Sopra i camici da lavoro indossano una mantellina bianca che, rigirata, diventa una specie di chador che le fa assomigliare a suore oppure a donne musulmane. Poi si spogliano, rimangono in sottoveste ed entrano nella fontana al centro della piazza: il rito dell'acqua a purificare, o anche solo a dare un momento di sollievo. Si strofinano, l'acqua passa di mano in mano, sgocciolando; si accarezzano, gioiose, solari, in armonia. Giunge Carmen, accompagnata da cinque bambine vestite come lei: sarà una bambina a gettare il fiore in faccia a Don Josè. Dopo la habanera rimangono a terra le impronte bagnate dei piedi nudi delle sigaraie, che i chierichetti al seguito di Micaëla cercano di asciugare, come si sforzassero di cancellare un peccato. Durante il duetto con Don Josè, Micaëla letteralmente si trasforma, apre la cappa nera rivelando un abito candido di pizzo da sposa: la ragazza è in estasi, sogna di sposare il militare, mentre i chierichetti stendono un velo nuziale sopra di lei.

Le sigaraie litigano, indemoniate, come belve feroci, si trascinano l'un l'altra tirandosi per i capelli, i soldati intervenuti a sedare la rissa le prendono a calci con violenza. I capelli, arma di seduzione e di offesa: Carmen si consegna a Don Josè offrendogli i capelli da stringere; lui la lega per i polsi a corde lunghissime che pendono dal fondo scena. Ma quelle corde imprigioneranno Don Josè: Carmen è solo in apparenza prigioniera, invero la seduttrice ha ammaliato e irretito il militare. Le architetture avanzano a chiudere la scena, si allungano ombre nere sul palcoscenico. Senso di nemesi, di inevitabilità fatalistica.

L'interno del secondo atto ha ancora un senso vagamente metafisico, dominato da un grande arcone grigio. Splendida la festa zingaresca nella taverna con un numero incredibile di persone (i movimenti delle masse sono tra le cose meglio riuscite). Escamillo arriva dall'alto, su un montacarichi, accompagnato da cinque bianche figure che vestono abiti simili a quelli della Semana santa sevillana, ma hanno gonne irrigidite da stecche che possono essere mosse alla maniera delle muletas nella corrida. Mentre Escamillo canta la sua aria in piedi sui tavoli, le maschere srotolano immagini di tori scannati, il risultato pratico del toreare. Una volta che Escamillo se n'è andato, i contrabbandieri contano mazzette di soldi sui tavoli infilati uno dietro l'altro. Poi il momento a due Carmen-Josè, isolati dal resto su un tappeto damascato rotondo con sopra cornucopie traboccanti di gioielli, coltelli a serramanico e posateria, vassoi ricolmi di frutta, anfore, candelabri. Il secondo atto si chiude con le figuranti come fiere, belve feroci, pantere, donne assetate di vendetta che brandiscono coltelli e quasi si avventano sulla platea con una forza indomita e incoercibile, pregna di fatalismo. Carmen e le sue donne estreme.

Lo spazio all'inizio del terzo atto è occupato da carotoni giganti, il cui significato rimane astruso ma che sono assai funzionali. Infatti se i carotoni lasciano più di un dubbio, poi è efficace l'effetto-cespugli sul palco una volta disindossati i costumi a inframezzare coristi e figuranti. Come perfetta è la distribuzione delle masse sul palco, prima in piedi, poi seduti a terra.
Con un gesto di grande affetto, Carmen passa la mano fra i capelli di Don Josè. Durante la scena con le carte, la predizione del futuro da parte di Frasquita e Mercédès, cinque donne in nero e velate (le prefiche) entrano dal fondo e piazzano delle croci bianche sopra i corpi addormentati, un grande cimitero altamente suggestivo: il presagio di morte che si accampa su tutto e su tutti. Quando si svegliano, sembrano impauriti, si addossano l'un l'altro al centro del palco: il senso di morte incombente è tangibile.
Arriva Micaëla, spettinata, invecchiata, sciatta; sulla croce che sempre l'accompagna ora c'è un crocifisso insanguinato, a cui lei si rivolge (“Voi mi proteggete, Signore”) e che andrà in pezzi. Don Josè identifica sempre più Micaëla con la propria madre lontana, le quali due donne insieme costituiscono il suo lato “razionale” e “convenzionale”, al contrario di Carmen. Quindi Micaëla, ormai invecchiata, è al centro di un enorme letto, il letto della agonia e della morte, al fondo del quale si inginocchia Don Josè, figlio e fidanzato che vorrebbe una vita lineare ma la cui passione selvaggia per l'indomita Carmen spinge in altra direzione. E questo forse ci ha convinto di meno.

Per tutto il quarto atto un enorme turibolo ondeggia sopra il palcoscenico. Di lato una parete di ex-voto: gambe, braccia, seni, volti, particolari anatomici ed organi al fine di propiziare la corrida. Nel corteo di Escamillo c'è anche il prete con il crocifisso: religione, superstizione e folklore inscindibilmente legati. I toreri a torso nudo si avvolgono in lunghissime fasce rosse, srotolate e arrotolate come in un balletto derviscio; fra queste “linee rosse” entrano in scena Carmen, in nero e Escamillo, coloratissimo, che depone il braccio-ex voto sulla parete.
Inevitabile il tragico, fatale epilogo: Carmen rimane sola, la parete in mattoni si chiude e la isola da tutti all'arrivo di Don Josè. Egli prende la mano di lei e se la passa sul viso, alla ricerca di una tenerezza affettiva che non c'è più, la stringe, la accarezza, incredulo, disperato. Carmen lo allontana da sé con violenza, sbattendolo per terra. Don Josè cerca di abusare di lei, che lo sfida un'ultima volta con il coltello, intimandogli di lasciarla passare. Egli le strappa di mano il coltello e la colpisce a morte. O forse è Carmen a spingersi verso il coltello puntato da Don Josè. Carmen si accascia fra le prefiche voltando le spalle al pubblico. Don Josè resta solo in disparte. Transita il corteo funebre dell'inizio, quasi investendo il corpo di Carmen. Il cerchio si è chiuso.

Daniel Barenboim dirige senza spartito e con pochi, imperiosi gesti. Sceglie tempi allargati che consentono all'ottima orchestra di curare il suono in maniera esemplare, ottenendo una musica sontuosa e dolce. La tinta dominante è quella drammatica, a svantaggio della leggerezza: ma l'opera ne guadagna in pathos sanguigno e cupissimo, fino alla irreparabilità fatalistica sottolineata dalla regia. Una direzione più sul versante del romanticismo che del verismo, che ha evidenziati i timbri contrastati, in alcuni momenti quasi wagneriani e che ha emozionato profondamente il pubblico in sala.

Nel ruolo del titolo la debuttante Anita Rachvelishvili vince tutte le sfide. A cominciare da quell'alone di Cenerentola che è alla base della sua giovinezza a Tbilisi, prima del trasferimento in Italia alla scuola della Scala e del suo trionfo sul palco milanese. La voce è calda, di colore splendido e grande dal punto di vista del volume, usata però con sapienza e senza forzature, nonostante la giovanissima età (dopo averla ascoltata, si comprende perchè Barenboim non abbia voluto altre che lei). Sicura sulla scena, una gran massa di capelli neri e ricci usati come arma di seduzione e bandiera di libertà, la sua Carmen non ha vergogna eppure non è mai volgare, anzi seduce con una certa purezza; a dominare nel suo carattere è la necessità (vitale) di trasgredire non per il gusto puro e semplice di farlo, quanto piuttosto per separarsi dall'ipocrita moralismo di certi ambienti. Quindi anelare la libertà, ad ogni costo, ad ogni prezzo, come unica scelta possibile di vita. Una vita concepita e concepibile solo in maniera laica e che quindi si scontra con una realtà fortemente influenzata dal cattolicesimo. Una Carmen, insomma, ribelle per natura, come le eroine greche. Come Medea, conterranea di Anita. Una Carmen sempre circondata da bambine, l'infanzia, la spensieratezza, la vita oltre e al di fuori delle convenzioni sociali. A rafforzare questa Carmen come “opera al femminile” (forse in tal senso va intesa la partoriente in scena all'inizio).

Jonas Kaufmann è un Don Josè dal fortissimo appeal; la voce è una delle più belle oggi in circolazione, il timbro brunito e vellutato, ricco di sfumature, l'estensione notevole, perfetta in ogni registro, dai caldi gravi ai limpidi acuti; il tenore è capace di mezze voci da brivido e di smorzature piene di calore. Il momento più alto in una performance ottima è la dichiarazione d'amore nel second'atto, dopo la quale il pubblico è impazzito. Don Josè è l'unico protagonista a non avere un seguito, forse perchè è uomo votato a una solitudine totale che lo allontana da tutti e da tutto, fino a quando Carmen non entra nella sua vita. Distruggendola.

Erwin Schrott è Escamillo, uno dei ruoli a lui più congeniali per fisico (sta molto bene coi capelli cortissimi), attorialità e vocalità; il particolare colore scuro della splendida voce si accompagna perfettamente a quello, pure scuro, di Kaufmann; Schrott ha voce ampia, sicura, di particolare effetto profondo grazie a un'emissione impeccabile che la rende prodiga di screziature e di sentimenti. Il suo Escamillo è torvo e accigliato, sempre accompagnato da un corteo mascherato che spiega i suoi trofei, impressionanti foto di tori scannati. Convince meno il costume con un terzo braccio, che poi il torero appende alla parete di ex voto prima della corrida.

Debole vocalmente la Micaëla di Adriana Damato: il personaggio si pone agli antipodi di Carmen; Micaëla è mite, devota, assennata, accompagnata sempre da prete e chierichetti, proiezione del suo desiderio di avere sempre una guida spirituale che la rassicuri. Nel terzo atto il suo abito da sposa, candido ed immacolato all'inizio, è ingiallito, strappato, vecchio: come il sogno infranto del matrimonio con Don Josè.

Ottimi tutti i comprimari: Francis Dudziak (Le Dancaïre), Rodolphe Briand (Le Remendado), Mathias Hausmann (Moralès), Gabor Bretz (Zuniga), Michèle Losier (Frasquita), Adriana Kučerova (Mercédès). Con loro Perla Viviana Cigolini (une merchande d'orange), Lorenzo B. Tedone (un bohémien), Gabriel Da Costa (Lillas Pastia), Carmine Maringola (prete).
Coro preparato alla perfezione da Bruno Casoni ed impeccabile anche nei movimenti.

Teatro tutto esaurito; pubblico silenziosissimo durante il primo atto, molti applausi al primo intervallo; dal secondo atto in poi applausi anche a scena aperta; un trionfo alla fine. Lo spettacolo, dopo le recite di questo dicembre, verrà ripreso a novembre 2010 con altro cast (ma stessa protagonista) diretto da Gustavo Dudamel.
 






 
 
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