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ClassicaOnline, 09 dicembre 2009 |
Bruno Belli |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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A PROPOSITO DELLA “CARMEN” ALLA SCALA |
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Ritengo che, per parlare della “Carmen” scaligera che, in questi giorni, si
rappresenta e che è stata accompagnata da animati dibattiti, archiviata la
“prima” di Sant’Ambrogio, si debba partire esattamente dall’opposto da cui
tutti si sono mossi, appassionati, intenditori, fin anche colleghi tutti. Ci
si è dimenticati, infatti, che, per uno spettacolo d’opera, il discorso deve
necessariamente muovere dalla musica scritta dall’autore. La regia,
interessante o no, classica o innovativa, intelligente o soltanto
provocatoria e fine a se stessa, è, pertanto, il substrato, l’accessorio che
deve, come la parola, aderire il più possibile alle intenzioni dell’autore.
Quindi, prima di entrare nella “Porta dell’Inferno”, ossia la regia della
Dante, due parole devono essere spese sulla musica e sugli interpreti ai
quali, eccezion fatta per la debuttante georgiana Anita Rachvelishvili sono
state regalate, sì e no, una decina di righe da parte delle maggiori testate
italiane.
La musica, dunque. Il maestro Baremboim ha scelto l’edizione originale di
Bizet, così come fu ascoltata all’“Opéra-comique”, nel 1875: pertanto, per
la prassi che vigeva su quel palcoscenico, alternanza di parti cantate e
parlate. Nessuna obiezione a patto che, dal punto di vista
dell’interpretazione, poi, si tenga presente la strumentazione “leggera” che
Bizet utilizzò per l’organico più ridotto rispetto alle masse dell’“Opéra”.
Difatti, prima dell’“Edizione Guiraud”, quella che circolò fino a pochi anni
or sono, ossia con i recitativi strumentati, così come la eseguivano, tanto
per ricordare qualche nome, la Simionato, la Barbieri, la Berganza, la
Verret, la Price, la dimensione generale del lavoro (e ben si può
comprendere basti ascoltare l’interpretazione che ha consegnato al disco,
per la Deutsche Grammophon, proprio con la Berganza, Claudio Abbado), era
quello di un’opera che si destreggia tra il colore sgargiante dei passi
ispirati alla solare terra iberica, frammista al rosso vivo del sangue (sia
esso quello della preistorica lotta con il toro, sia della passione amorosa
frutto della lascivia connaturata alla terra riarsa, ove, per secondare
l’istinto alla vita, l’accoppiamento è scongiuro alla presenza della morte),
mediante toni tratti dal folclore, ad altri d’elevata tensione drammatica,
faccia della stessa medaglia, viscerale ed atavico rito che accompagna
l’amore e la morte, come esemplificano i passi biblici che narrano la
passione di Salomè per il Battista, la quale giunge fino al reale possesso
del fisico, seppure limitatamente alla testa decapitata.
L’Edizione Guiraud, invece, spostava l’attenzione sul dramma a fosche tinte,
tanto che, nella versione italiana, che, tra l’altro, circolò in mezzo
mondo, essa fu letta in chiave verista, come testimoniano le incisioni di
Caruso, di Pertile e di Gigli. Tutto questo per affermare che Baremboim ha
diretto in modo esemplare, quanto a luminosità ottenuta dai complessi della
Scala, ma con certa pesantezza e lentezza di tempi a lui connaturate che non
restano fedeli alla “prima visione” di Bizet, ma che si sposano con la
visione della regista.
Quanto ai cantanti, la Rachvelishvili asseconda benissimo le intenzioni di
Baremboim, sfoggiando perfetta pronuncia francese ed emissione regolare e
fluida, sebbene il timbro di voce non sia il più adatto per tale ruolo, ma
non possiamo che ammirare il suo coraggio e la sua prestazione. Ottima anche
Adriana Damato quale Micaela molto angelica eppure volitiva. Eccellente l’
Escamillo d’Erwin Shrott, il quale, alla prestanza fisica, lega una voce
vellutata di vero basso baritono che conferisce al ruolo del toreador
un’animalesca traccia di sessuali voluttà recondite, dove al piacere di
infliggere morte si lega quello di “fecondare” la femmina di turno. Molto
più zingaro di Carmen, almeno nell’aspetto, Jonas Kaufmann, il quale ha
saputo esprimere languide e sensuali mezzevoci, così come fraseggi
all’Heldentenor d’ascendenza wagneriana. Il tutto, ovviamente, genera da sé,
la perfetta simbiosi con un personaggio che, da bravo ragazzo di provincia
giunto in città, scende nella più abbietta anticamera dell’Inferno.
Quell’ Inferno invocato dall’inossidabile Zefirelli a proposito della regia
d’Emma Dante.
Si sono levate voci ad incondizionata difesa della sua regia, altre di pieno
dissenso; alcuni hanno scomodato addirittura la “destra” e la “sinistra”
culturali. Prima di spendere le ultime parole su questa Carmen, regalandole
alla regia della Dante che, tra l’altro, come donna volitiva mi piace e mi è
anche simpatica, devo ricordare quale sia la funzione di un regista
all’opera. Molti di loro provenienti dal teatro di prosa o dal cinema,
caricano di troppi simbolismi e d’interpretazioni personali, in altre parole
di una sovrastruttura al dettato dell’autore.
Verdi affermava che già nella musica stanno i gesti che i cantanti dovranno
interpretare, sono insiti in essa i caratteri dei personaggi, le ansie, i
dubbi, le dolcezze e le asperità. Consiglio ai registi di leggere il
carteggio tra il Nostro e Piave, a proposito della stesura di Rigoletto,
oppure con Boito per Otello, nonché quello tra Wagner e Liszt: troveranno
molte indicazioni utili per potere creare delle “messe in scena” sempre
nuove, pur senza stravolgere l’opera.
La Dante, a mio parere, vuole interpretare il difficilissimo rapporto che è
insito amore e della morte. Semplicemente, lo fa con troppa ostentazione
barocca: se avesse sfrondato certi simboli ridondanti (il prete che segue
Micaela con una gran croce, la bara, la trasformazione della veste da nera
in bianco, l’improvvisa apparizione della madre di Josè sul letto di morte)
sarebbe una regia originale qual’ è, ma più diretta e “comprensibile” anche
a chi non accetti le “innovazioni”. E’ giusto che Emma Dante segua la sua
strada, magari leggendosi, qualora tornasse all’opera, qualche
interpretazione fornita dagli autori stessi o dalle semplici indicazioni dei
libretti (molto più preziose di quanto non si consideri…), senza scontrarsi
con Zeffirelli, definendolo “vecchia cariatide”. Entrambi hanno una visione,
seppure opposta, di come allestire una regia d’opera: entrambe sono valide,
se rispettose del messaggio originale creato dall’Autore.
L’importante è che la regia non “derida” il lavoro del compositore e del
librettista, in altre parole che non ignorino quello che fa parte della
storia, senza la conoscenza della quale ci si svilisce.
Un popolo, e lo affermava il poeta Buttita, siciliano come la Dante, diventa
povero, quando disconosce le proprie radici. Credo che ci sia molto da
meditare…e non solo nell’ambito dell’Arte.
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