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Operaclick |
Ugo Malasoma |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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L’attesa è finita!
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Dopo
tante parole spese, illazioni, presentazioni, interviste, commenti
anticipati - i più disparati - ecco finalmente celebrata l’apertura della
stagione scaligera. La curiosità era tanta, e la domanda ricorrente era
quanto avrebbe inciso, e condizionato, la visione di un “Sud dell’anima”,
violento e prevaricante, nell’idea registica di Emma Dante sulla musica, con
la sua miniera di raffinatezze coloristiche, ritmiche ed armoniche. La
risposta non è stata del tutto convincente, anzi, pur facendo tutti i
distinguo necessari e salutato con simpatia l’esordio scaligero della
debuttante palermitana in una regia lirica, la delusione si è materializzata
nella sua evidenza alla fine dello spettacolo.
Uno spettacolo molto meno provocante di quanto non fosse stato annunciato,
con movimenti di massa apprezzabili (anche se le coreografie hanno sempre un
che di esagerato ) meglio definiti rispetto ai gesti dei protagonisti,
chiusi in cliché dejà-vu. Come promesso non siamo a Siviglia - ci pare di
cogliere qualche richiamo alla natìa Sicilia – ma dove la presenza ossessiva
dei simboli chiesastici arriva a condizionare praticamente tutta la messa in
scena. Le sigaraie arrivano incolonnate come militari e vestono
apparentemente come delle monache – la loro condizione di lavoratrici
sfruttate è cioè assimilata alla soffocante clausura delle suore - per poi
denudarsi e mostrare i loro corpi provocanti allo sguardo libidinoso di
popolani, giovanotti e militari. Anche Micaela appare come una monachella
che cela un abito da sposa sempre pronto per l’amato Don José, ed
ogniqualvolta è in scena è seguita da un prete con due chierichetti, e
persino la guida che l’accompagna sui monti tra i contrabbandieri è un
prete. Tra canoniche processioni di Madonne, crocifissi inclinati che si
frangono in mille pezzi, preti benedicenti ed ammonenti le folle, troppo
orgiasticamente dedite ad una liberatoria gioia di vivere nell’occasione
festosa della corrida e turiboli giganteschi che oscillano sopra le masse a
spandere miasmi d’incensi, non c’è che da rimanerne intossicati. Qua e là la
messa in scena segue vie meno discutibili: le sigaraie si azzuffano con
tanta partecipazione da divenire persino delle acrobate; il cambio della
guardia, vede i militari che, al posto dello zaino, si tengono aggrappato il
proprio “doppio” bambino, rimarcante simbolicamente il passaggio
dall’infanzia all’età adulta; i soldati paiono disorientati e minacciano
continuamente di sparare sulle donne assatanate; José è un solitario ed
introverso; Carmen è una donna libera pronta a graffiare per difendersi ma
invero poco seducente, che consegna il coltello che la ucciderà al suo
assassino; Escamillo è il macho di sempre, anche se prima della corrida ha
un gesto amorevole nei confronti della gitana avvolgendola premurosamente
nella sua muleta. Altrove si eccede in bozzettismo: la donna incinta quasi
partoriente che sviene; gli uomini nullafacenti che si sventolano e si
annoiano; tappeti sbattuti in piazza in un ridicolo via-vai; prefiche che
piangono a comando; la cerimonia matrimoniale sognata durante il duetto
Micaela-Don José del primo atto; lo sventolio di fazzoletti rossi sul bianco
dei vestiti nel quarto atto. Però è simpatica la scena della taverna da
Lillas Pastia, anche se l’attore che lo impersona è un guitto saltellante,
mentre più incomprensibili appaiono quegli ascensori che vanno e vengono con
i vari protagonisti, tra questi Escamillo, accompagnato da
prefiche-odalische in costume bianco, che srotolano manifesti sanguinari con
le immagini di tori ammazzati, quasi più una protesta animalista. La scena
della seduzione di Carmen si svolge su un tappeto orientaleggiante tra
cornucopie, vasi e candelabri, come un luogo isolato per la celebrazione di
un rito, quasi un ring un po’ polveroso. Poco selvaggia la montagna del
terzo atto e strano quel viale alberato che “cela” altri contrabbandieri. La
pantomima dello scontro a colpi di navaja è rispettosa delle didascalie, con
Escamillo che “gioca” a fare il matador dell’ingenuo José. Ma davvero kitsch
il lettone approntato alla fine del terzo atto, che dovrebbe simboleggiare,
ed unire idealmente, la purezza della madre di José morente e l’altrettanta
purezza virginale della fidanzata, o la sorta di monolite di arti-exvoto che
precede la corrida così come le prefiche onnipresenti annuncianti la
tragedia incombente. Prefiche che faranno da catafalco al corpo sgozzato di
Carmen. Ed infine, credibile nelle intenzioni ma inadeguato nella sua
rappresentazione il tentativo di stupro prima dell’omicidio. La scenografia
di Richard Peduzzi segue l’idea, ormai divenuta abituale, di fondali di muri
a mattoni rossi incombenti, nulla di nuovo rispetto al Tristan und Isolde
degli anni precedenti. Discrete le luci di Dominique Bruguière, anche se ci
aspettavamo un po’ più di sole al primo ed al quarto atto, ma da segnalare
il richiamo metafisico a De Chirico, nella scena in cui Carmen è
prigioniera. I costumi di Emma Dante non sono “collocati” temporalmente e
fanno poco folclore, anche quelli gitani da Lillas Pastia, ma evidenziano
tutta una simbologia che “nasconde” desideri, sogni, inganni.
Musicalmente ci aspettavamo una grande lettura da parte di Daniel Barenboim,
ma la delusione più grande è arrivata proprio dalla sua concertazione. Che
pare perdersi nelle ricercatezze del dettaglio senza mai farsi racconto
comunicativo, teatro vissuto. Così molto belli sono apparsi il preludio:
brillantezza gioiosa mista ad angoscia, e gli entr’acte: marcia militare con
un surplus di umorismo il primo, ordito delicato ma privo del crescente
appassionato il secondo, una musica rutilante di colori nell’allegro vivo
che precede il quarto atto. Ma al di là di questi momenti di pura belluria
musicale, sono mancate le dinamiche all’interno dei numeri chiusi: poche
vibrazioni, assenza totale di ironia, sensualità, provocazione erotica,
cosicché la parte di Carmen si è svilita non poco, a fronte di un esagerato
lirismo, morbido sì ma anche assai slentato e neppure poi tanto trasparente.
Così passano via senza emozioni gli accompagnamenti all’habanera e alla
seguedilla; noiosissimi i duetti, soprattutto soporifero quello tra Don Josè
e Micaela, ma pure quello della seduzione di Carmen al secondo atto, privo
di languore indolente, di irriverente canzonatura, e nel contempo di
carnalità felina. Nella chanson bohème, il passaggio dall’andantino in
pianissimo al presto in forte non ha avuto quella levità necessaria;
conservatasi invece, per fortuna, la sensazione di crescente orgiastico.
L’aria di José si è sviluppata su un accompagnamento di pura mestizia a cui
ha posto rimedio la sola bravura del tenore, che è riuscito ad incanalarla
verso una reminescenza più amorosa e sognante. Solo baldanzoso è apparso
quello dei couplets di Escamillo, a danno di ironia e fatuità. L’aria di
Micaela ha suscitato il ricordo di un bamboleggiamento inopportuno, che è
cosa assai diversa dalla dolce ed umana spontaneità prescritta. Qua e là si
sono evidenziati anche degli scollamenti tra cantanti e “buca” davvero
inopinati, come nel morceau d’ensemble e nello “scherzo” del quintetto, qui
poco esaltata è sembrata la ritmica variegata della tarantella. Il Trio è
privo di leggerezza, ma discreto il seguente contrasto tra la fanciullesca
spensieratezza del gioco delle carte e la pesante cupezza del tema del
destino. Brillante, senza dubbio, l’allegro deciso e quello vivace
dell’inizio del quarto atto. Ma a ben vedere quel che si rimprovera di più
al grande direttore è che nulla ha fatto per aiutare i cantanti a
fraseggiare meglio, in una parola, a rendere vivi i rispettivi personaggi,
escluso ovviamente il Don José di Kaufmann, vero trionfatore della serata.
Da una parte la vivacità, anche molto esteriore, dei membri della Compagnia
Sud Costa Occidentale della regista, dall’altra la compassata partecipazione
vocale. Un contrasto più stridente non si poteva celebrare.
Auguriamo sinceramente un gran successo per la futura carriera a Anita
Rachvelishvili, esordiente nella parte protagonista, allieva dell’Accademia
degli artisti della Scala, dotata di voce ben emessa ed esibita con
soddisfazione, morbida nei passaggi di registro, dal timbro brunito e di
bella pasta, dai gravi non volgari e dagli acuti sufficientemente timbrati,
diligente nel seguire le indicazioni registiche, ma dalla personalità ancora
in divenire. Non è in sostanza ancora Carmen. Una habanera corretta ma per
niente sensuale, meno che meno persuasiva; poco leggera ma neppure
provocante la chanson e priva di ironica maliziosità ed erotismo la
seguedilla. La chanson bohème è ben compitata ma risulta assente il
fatalismo. Nei duetti con Don José, non riesce a far emergere l’allusione
erotica ed il languore, ma non è neanche spiritosa né aspra, quindi poco
felina negli scatti con cui dovrebbe difendere i sentimenti esibiti e la
libertà minacciata, vedi il suo pallido finale. E’ certamente
irreprensibile, per contro, con una sorta di svagatezza che nasconde i
turbamenti destati dalla tragedia evocata dalle carte, ma sempre troppo
timida nel trio.
Che Jonas Kaufmann avesse già dimostrato di essere un gran bravo Don Josè
non v’è dubbio, questa sera, allontanando una fastidiosa ed improvvisa
indisposizione che non gli aveva permesso di cantare all’anteprima del 4,
quella dedicata ai giovani, si è confermato tra i migliori tenori odierni.
Il timbro scuro, da baritenore, gli consente uno sfoggio di virilità oggi
senza pari. Pure, questo colore scurissimo non risulta d’impiccio nella
ricerca fantasiosa di mezzevoci, piani e pianissimi, nel rispetto delle
forcelle, delle corone, del legato e di una passionalità assai convincente.
E se il cantante convince appieno l’attore è ancora più credibile. E’ raro
ascoltare un attacco così sognante e un Si bemolle in piano nell’aria del
fiore, è raro udire i molti La bemolle e La naturali così generosi e senza
incrinature nel disperato finale del terzo atto. Magistrale è poi il
trapasso interpretativo del finale: da supplichevole a trepidante, da
avvilito a violento, fino alla disperazione più emozionante quando si
abbandona al grido sconvolgente: “Ah! Carmen! Ma Carmen adorée!” Lì
veramente il Teatro si è trasformato in vita vissuta. E’ l’unico
protagonista a cui è stato decretato un applauso prolungato in piena recita,
alla fine dell’aria del fiore. Meritatissimo.
Erwin Schrott è un Escamillo di personalità, anche se parecchio grezza, il
timbro è chiaro ma riesce molto meglio nel registro grave che non negli
acuti, dove i molti Fa dei couplets e soprattutto il Fa# del finale del
terzo atto appaiono un po’ forzati. Descrive a tutto tondo il classico
torero virile, dotato di indubbio carisma scenico con esibizione accentuata
di volume, ma il fraseggio avrebbe desiderato qualche finezza in più.
Tuttavia, la dolcezza d’emissione, nell’allegretto quasi andantino di: “Si
tu m’aimes, Carmen”, ne evidenzia al meglio il lato seduttivo.
Assai deludente invece la Micaela di Adriana Damato, che ha riproposto con
scarsa fantasia la leziosità dei soprani leggeri come colibrì, dal volume
inadeguato al grande contenitore scaligero, dall’accento sommesso e lagnoso,
dall’emissione periclitante e vibrato pronunciato per evidenti problemi di
“appoggio”, dagli acuti aspri e forzati sin dal La bemolle, senza parlare
del Si naturale dell’aria, anche calante. Il fraseggio sottolinea la
ritrosia e la timidezza, ma l’ansia gioiosa e l’animazione umanissima
dell’innamorata si perdono in un lamentoso minimo comune denominatore, assai
poco accattivante. Le Dancaire di Francis Dudziak e il Remendado di Rodolphe
Briand sono simpatici ma un po’ confusionari nell’andare a tempo; più
bravine indubbiamente la Frasquita di Michèle Losjer, solo un po’ acidula in
acuto e la Mercédès di Adriana Kucerovà. Mathias Hausmann è un corretto
Moralès, mentre Gabor Bretz un inascoltabile Zuniga. Dignitosi gli altri
comprimari e acrobatico il parlante Lillas Pastia di Gabriel Da Costa.
Non del tutto a punto è sembrato anche il coro per la scarsa amalgama tra le
sezioni.
Gli applausi finali sono stati calorosissimi per Kaufmann, calorosi per la
Rachvelishvili, Schrott e Barenboim, di cortesia per la Compagnia della
regista, fischiata insieme ai colleghi della messa in scena, così come la
Damato. |
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Foto: Teatro alla Scala |
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