Operadisc.com
di Pietro Bagnoli
Puccini: Tosca, Zürich, 14-4-2009
Backstage: Tosca a Zurigo
Mi sembrava quasi – l’altra sera nell’Opernhaus di Zurigo – che Carsen avesse letto il breve e serrato saggio di Silvestro Severgnini su “Tosca” (in “Invito all’ascolto di Puccini”, Ed. Mursia): che, cioè, la protagonista recita sempre in continuazione, opponendo la propria finzione alla sincerità degli altri protagonisti. Perché quest’idea della vita dell’Artista come una continua finzione da palcoscenico è quella che mi si è palesata assistendo all’allestimento del grande regista canadese, notoriamente non nuovo a questo tipo di interpretazione all’insegna del teatro nel teatro, cui era già ricorso con i “Comtes d’Hoffmann” e “Capriccio”. Il primo atto si apre su una platea – che noi contempliamo da dietro – posta davanti ad un sipario, dietro cui Tosca si recherà per andare a pregare ed infiorare la Madonna; il secondo atto è un backstage in cui la mancata esposizione al pubblico forse ci vuole raccontare l’intimità di una violenza privata; il terzo si svolge su una platea che si affaccia sul buio del boccascena, che assorbe ed annulla le vicende umane dei protagonisti.

Tosca è la protagonista del dramma: il suo essere attrice nella vita come nella finzione scenica è ben reso da Carsen con alcuni interessanti siparietti, fra cui il più gustoso mi è sembrato quello dopo la scena madre di “Tu non l’avrai stasera! Giuro!”, al termine della quale due membri del coro, in guisa di fan, si sono avvicinati a lei con il programma di sala – lo stesso che stringevo anch’io fra le mani – che lei autografava con sufficienza. Non diversamente, nel secondo atto Tosca “recita” nel vero senso del termine il “Vissi d’arte” che strappa un applauso ironico a Scarpia che ben ne smaschera gli intenti. Al termine dell’opera, Floria lancia il suo “O Scarpia, avanti a Dio!” sotto un occhio di bue che la illumina dall’alto, prima di farsi inghiottire dal buio del boccascena, ma ne riemerge subito dopo mentre due inservienti le recapitano i mazzi di fiori del pubblico “dell’altra parte”.

Gli altri personaggi “recitano” secondo Carsen?
Secondo me, no. O quanto meno, non così tanto. Ma assecondano entrambi la recita personale di Tosca, adattandovisi ognuno secondo il proprio stile. Per cui avremo uno Scarpia sopra le righe che la applaude con ironia alla fine del “Vissi d'arte” e un Cavaradossi tenero e consapevole che se la coccola al terzo con la certezza che la sua vita è finita perché Scarpia non perdona mai nessuno.

Tosca nell'occhio del riflettore, sempre. Al termine del Te Deum si apre il sipario che era rimasto chiuso in fondo al palcoscenico, rivelandoci un trionfo barocco di serafini e di putti che suonano pifferi e trombe intorno a... Tosca, travestita da Madonna e con la testa cinta da una raggiera. Ma Tosca è anche l'ossessione privata di Scarpia, che ne ha nel suo studio un ritratto ricavato da quello opportunamente riveduto della Maddalena di Cavaradossi. Ed è anche l'ossessione di Cavaradossi che, prima di morire, sceglie di dipingerne “l'occhio nero” sul muro di Castel Sant'Angelo invece di scriverle la famosa lettera.

Tosca come una Diva del cinema degli Anni Cinquanta arriva in chiesa con occhialoni neri e pettinatura alla Grace Kelly.
Tosca si prepara al coito con Scarpia spogliandosi con studiata lentezza e scovando quasi per caso il coltello da affondargli nel cuore; e, dopo averlo ammazzato, invece del tradizionale Crocefisso gli deposita una rosa sul cuore prima di fare un'uscita degna di Sarah Bernhardt.

Tosca ha mille facce, ma un solo cuore: calda, appassionata, bugiarda, pia, assassina, è la donna totale che tutti noi, in fondo, speriamo di incontrare nella nostra vita; il fatto che reciti costantemente una parte è qualcosa che, in fondo, le perdoniamo perché vogliamo annullarci in lei, nella sua carnalità morbida e rassicurante. E tutto questo è così tenacemente collegato all'idea stessa di questa cantante e grande diva romana da essere persino paradigmatico e da cancellare con un ideale colpo di spugna qualunque altra visione alternativa del personaggio, a cominciare da tutte quelle donne nevrotiche che na hanno fatto un personaggio al limite della psicosi paranoide.

È logico che per sostenere un'idea registica così forte sia indispensabile una grande cantante-artista che possa mettersi tutte queste maschere con nonchalance e credibilità. Emily Magee ha la faccia e le tette adatte alla bisogna, ma non – purtroppo – la voce né la statura artistica. A sua discolpa va detto che non ci sono in giro tante cantanti adatte a sostenere una visione del genere. A noi che eravamo in sala sono venuti in mente, non a caso, i nomi delle più carismatiche del momento: Nina Stemme, Karita Mattila, Evelyn Herlitzius, Eve-Marie Westbroek, tutte cantanti di eccezionale bravura, tutte personalità travolgenti e tutte, guarda caso, esperte declamatrici. Non stupisca quest'ultimo aspetto: a parte il fatto che non è una novità che molte interpreti di Tosca sfoghino nel parlato i momenti più tesi proprio per incapacità di dominare la declamazione scolpita, un allestimento di questo genere stimola tantissimo la declamazione come valore aggiunto.
Ora, purtroppo, la Magee che pure è una nota interprete wagneriana, ha scarsa familiarità col declamato che, infatti, trasforma continuamente in parlato o gridato rauco; è apparsa costantemente in guerra con il registro acuto (il do della lama è stato preso con la rincorsa, ma era giunta notizia che in almeno una delle recite precedenti non l'aveva fatto); e ha una personalità troppo modesta per poter reggere un compito del genere. È stata sicuramente brava allorquando ha dovuto fare vedere la carnalità del suo personaggio e in tutti i casi in cui la partitura batte sulle zone centrali; ma questo non basta a fare di lei una Tosca memorabile o anche semplicemente accettabile.

E così, è successo che l'asse del dramma si è spostato sugli uomini con risultati meritevoli di una riflessione attenta.
Jonas Kaufmann ha letteralmente reinventato il personaggio di Cavaradossi, piegando ed inflettendo il suo vocione scuro in mille ripiegamenti, smorzature, pianissimi. Per trovare un antecedente appena lontanamente paragonabile, bisogna risalire a Pippo Di Stefano, cui lo accomuna il tono sorridente e il ricorso orgoglioso alla mezzavoce, ma rispetto al quale esibisce una vocalità nettamente più sana e rigogliosa. Come dice giustamente il nostro Maugham, quante volte avete sentito fare “E te beltade ignota” in pp? Oppure, per citare Matteo Marazzi: “...sublime qualità del canto, uso diabolico delle mezzevoci, sensualità fragile, abbandonata ed adolescente della sua recitazione, acuto svettante e facilissimo, il fascino vellutato del timbro, il rigore ritmico, il senso di ogni parola”. Il pubblico ha fatto veramente fatica a tacere al termine dei suoi momenti solistici e, al termine della recita, gli ha tributato un autentico trionfo, assolutamente meritato. Per me che lo vedevo la prima volta in azione, è stata la rivelazione di colui che, in questo momento, è il tenore più importante del mondo. Anche per lui, qualche siparietto divertente come quando canta “Recondita armonia” paragonando l'immagine del ritratto della Maddalena con la foto di Tosca sul programma di sala. E, ovviamente, lo struggente inizio del terzo atto sul palcoscenico nudo e rivolto al boccascena immaginario dell'altro lato.

Ma, com'era prevedibile, il talento di Carsen si è sbizzarrito soprattutto con il personaggio di Scarpia, grazie anche all'eccezionale intesa con Thomas Hampson, al suo debutto nel ruolo. Sin dal suo apparire, la presenza di questo Scarpia ha dell'eccezionale: l'attenzione del pubblico è concentrata sulla folla in mezzo al palcoscenico quando, sull'irrompere dei timpani, delle trombe e dei contrabbassi che si fanno largo col tema di Scarpia attraverso a marcetta del coro, si materializzano tre figuri vestiti di nero. Tu pensi: “Scarpia sarà lì in mezzo”, come sempre in tutte le altre produzioni, ma ecco che improvvisamente un faro punta fra le colonne, in alto, vicino al dipinto della Maddalena e lì, con un colpo di teatro formidabile, si staglia Scarpia, dove nessuno se lo aspetta. Il canto di Hampson è variamente reprensibile, tutto sulle dinamiche del forte; ma la presenza è eccezionale. Basta solo il gesto di togliersi i guanti per identificare il personaggio, ma mi ha colpito molto anche il gesto di toccare appena il bavero di Spoletta con gesto intimidatorio da mafioso all'inizio del secondo atto, per identificare un'autorità violenta e soggiogante che si manifesta con pochi e semplici gesti. Questo dandy affascinante, ricco di una gioventù non ancora completamente esausta, abituato a comandare con pochi e semplici gesti, esplode in scariche di rabbia feroce che lo portano a distruggere il ritratto di Tosca che si tiene davanti con lo stesso coltello con cui poi verrà ucciso. La voce è quella che è: mai stata particolarmente bella (ma comunque sempre usata in modo eccezionale), adesso sfoga per lo più in un declamato affascinante e ricco di suggestioni, pur se non di armonici. Se devo dire, da appassionato dei grandi baritoni tedeschi tipo Metternich, mi aspettavo uno Scarpia ricco di suggestioni barocche da interprete mozartiano, un po' sul genere di quello che riusciva a realizzare Domgraf-Fassbaender; invece mi sono trovato di fronte ad un Goebbels, un Beria, capace di sferzate da burocrate del potere e della violenza. Forma vocale non più che discreta, ma prestazione complessivamente da autentico gigante.

Eccezionale come sempre, in Carsen, il gioco delle luci. La locandina riporta il nome di Davy Cunningham come light designer, ma non escluderei che – more solito – lo stesso Carsen ci abbia messo mano. La lama di luce che proviene da destra, all'apertura della porta da parte di Sciarrone, taglia crudelmente il palcoscenico e Scarpia in piedi: nessuno aveva mai reso meglio l'idea della tortura in corso.

A parte l'atroce pastorello di Natalie Hug (che brutta idea rimettere un soprano in questa particina!), gli altri si disimpegnano con professionalità.
Il personaggio del Sagrestano – reso in modo ad onor del vero non brillantissimo da Giuseppe Scorsin – trasforma le famose due usmate di tabacco prima di “Badi quand'esce chiuda” in due rapide passate di spazzolone sul fondo.

Applaudito il cameo di Peter Straka, tenore noto per il suo Alwa Schön, qui alle prese con il ben più semplice Spoletta
 






 
 
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