|
|
|
|
|
Operaclick |
Riccardo Rocca |
Strauss: Capriccio, Torino, 08/10/2002
|
Torino: CAPRICCIO
|
|
|
Splendida idea quella di aprire la nuova
stagione d’opera sotto la Mole con questo capolavoro straussiano. Per
diversi motivi. Il principale è che mai, prima d’ora, quest’opera era stata
rappresentata a Torino: si è trattato quindi di un evento speciale e curioso
per una città che vanta le prime rappresentazioni italiane di opere come
Salome e Ariadne auf Naxos. E un evento che si inserisce nell’usanza di
queste ultime quattro stagioni, per le cui inaugurazioni sono stati scelti
quattro titoli inconsueti (Capriccio non dovrebbe essere da considerare
tale, ma per Torino, come già detto, si trattava di un caso particolare).
Altro motivo è il fatto di aprire la stagione con un titolo che è il
testamento di un grande compositore, un’opera che mette in discussione il
concetto di opera lirica, che sigla un percorso evolutivo di un genere
teatrale/musicale importantissimo. Diceva Strauss in un’intervista torinese
del 1906: «[…] Le opere più perfette non sono solamente una fine, ma sono e
saranno sempre il principio di un’evoluzione avvenire verso forme e
perfezioni nuove». Si parte da un’opera che riassume tutte le altre, che ne
tira le fila. Un’opera che si pone quindi come presentazione, come saggio
sul genere “opera”.
Il nuovo allestimento del Teatro Regio è firmato da Jonathan Miller, regista
che spesso è stato oggetto di discussioni. E di solito chi fa discutere è
chi ha nuove idee e ha il coraggio di innovare e dare nuove svolte ad un
genere che altrimenti invecchierebbe assai presto. Miller in questo
Capriccio è riuscito ad essere originale ed interessante senza cadere
nell’assurdo o nell’indecifrabile. Nulla sarebbe stato più normale di un bel
salotto settecentesco, se non il fatto di aver genialmente inserito la
conversazione al tempo del secondo conflitto mondiale, proprio l’epoca in
cui alla Bayerische Staatsoper ebbe luogo la prima rappresentazione. Miller
con questa idea, regala a Capriccio ancor più una caratterizzazione
intellettuale, rendendola esplicitamente un’opera nella quale si discute di
sè stessa, e del genere di cui la stessa fa parte. Ricrea quindi le stesse
circostanze che ebbero Strauss e Krauss quando si trovarono a collaborare
per questa nuova opera, quindi un clima di guerra dove poteva sembrare
ridicolo perdersi in speculazioni. Lo stesso riproduce Miller, relegando la
guerra ad un sottofondo tragico, imponente, che nel venire nascosto da una
discussione intellettuale da salotto, viene profondamente descritto nella
sua realtà bruciante. E’ così che, nel finale, appena suonato l’ultimo
accordo, sullo sfondo si sente il rombo di un aereo militare.
Se anche quest’ultimo particolare sarebbe potuto essere leggermente
ridimensionato così da non intaccare la sublime chiusura straussiana, l’idea
complessiva resta geniale e ben concretizzata.
La compagnia di canto è poi di primo livello. Elizabeth Whitehouse è stata
una protagonista notevole, che ha saputo rendere bene gli atteggiamenti un
po’ estatici della Contessa, contemplativi, per giungere ad un monologo
finale emozionante. Forse un poco manierata, ma convincente. Di incisivo
impatto il rapporto con Doris Soffel che, con il suo noto temperamento, ha
disegnato impeccabilmente il divismo di Clairon (chi se le dimentica più
quelle occhiate ferine alla ballerina che le ronzava intorno?). Kaufmann
e Otelli, nei panni dei due artisti, si trovavano perfettamente a loro agio.
Il primo per l’eleganza, la musicalità che veniva riversata nel personaggio,
il secondo per le caratteristiche vocali. Otelli è infatti in possesso
di un timbro tutt’altro che bello che si presta molto bene alle
caratteristiche del poeta Olivier: un po’ scorbutico, antimusicale e
sostenitore convinto della poesia sulla musica. In scena entrambi apparivano
come due figure stilizzate nei movimenti e esagerate nei convincimenti,
esattamente modelli e simboli di due forme d’arte. Bravo anche Bär, un conte
brillante (anche troppo a tratti) così come Hawlata nei panni del direttore
del teatro, di cui ha saputo esaltare i giusti aspetti comici.
Ottimi i comprimari, eccetto la discutibile scelta di un’inglese e di un
ucraino per i ruoli dei cantanti italiani.
L’orchestra ha suonato divinamente, con meriti indiscussi di Jeffrey Tate.
Raramente si era avvertita al Regio una tal confidenza e corrispondenza fra
palcoscenico e golfo mistico, e si immagina facilmente quanto sia importante
e che cosa significhi ciò in un tessuto armonico così ingegnoso e omogeneo
come quello straussiano.
In conclusione, è doveroso citare anche la parte debole di questo
spettacolo, che è stato il pubblico torinese: uscite continue dalla sala,
bronchiti diffuse, parlottii, applauso finale anticipato. Un pubblico
ignorante, imprudente, irrispettoso e antipatico. Evidentemente non ancora
abituato a due ore e mezza consecutive di teatro.
Riccardo Rocca |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|