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la Repubblica, 23 ottobre 2013 |
di GIUSEPPE VIDETTI |
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Jonas Kaufmann: "Cantare non basta più, bisogna entrare nel personaggio come sul set" |
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Bravo e ambizioso, il tenore tedesco torna alla Scala lunedì con il
recital più atteso della stagione
La lirica negli stadi?
Roba da Tre Tenori. Morta e sepolta con Pavarotti. Almeno sembra. Invece no.
"L'opera è un virus", dice Jonas Kaufmann, il massimo tenore contemporaneo,
"aspetta solo l'occasione giusta per diffondersi". Se il contagio non è
ancora stato scongiurato è anche merito suo. I recital insieme al baritono
Erwin Schrott e al soprano Anna Netrebko hanno riunito anche più di 20 mila
paganti. Non sono solo i tre artisti più fotogenici del bel canto, ma anche
i più contesi dai teatri d'opera. Kaufmann, 44 anni, è un sex symbol e - per
quanto possa detestare la definizione - il rinnovamento del pubblico a
teatro oggi passa anche attraverso la prestanza dei cantanti e le loro
capacità attoriali. Bello, bravo, ambizioso, il tenore tedesco, spavaldo
interprete Wagneriano, torna alla Scala lunedì con il recital più atteso
della stagione: il programma comprende Strauss, Liszt, Wagner, Schumann e
alcune arie dall'osannato The Verdi album, il cd appena pubblicato in
occasione del bicentenario della nascita del compositore che è anche il suo
spirito guida.
"Verdi è stato la chiave d'accesso alle mie
possibilità vocali", esordisce. "Nel 1995 ebbi una grande crisi, vocale
soprattutto; pensai addirittura di lasciare questo mestiere. Ero arrivato a
un punto in cui non mi potevo più fidare del mio strumento, ogni sera
rischiavo di non finire la recita. Fortunatamente ho trovato un insegnante
di canto americano che mi ha indicato un'altra via, ha scoperto nella mia
voce un altro suono, e per farlo ha sempre usato Verdi. Tutti dicono che la
mia carriera internazionale è iniziata con La Traviata al Met".
Registrare a Parma le ha dato emozioni particolari?
"Verdi è un uomo del popolo; la sua musica è così potente che riesce a
commuovere anche chi è digiuno di opera. Ma c'è anche l'altro Verdi, il
grande drammaturgo in sintonia con Shakespeare e Schiller, quello che a 74
anni scrisse Otello. In ogni caso Verdi è sinonimo d'Italia, sarebbe stato
impossibile ricreare la stessa atmosfera in Germania. Inoltre la mia
famiglia ha sempre amato il vostro paese. Mio nonno scelse Lido di Classe
per le vacanze estive, ma poi siamo andati alla scoperta di tutta la
costiera adriatica e jonica fino alla Calabria".
Finalmente
la rivedremo alla Scala. Non ci sono state molte occasioni di vederla in
Italia, al di fuori dal massimo teatro. "Credo ci sia stata una
certa chiusura negli ultimi anni agli artisti internazionali. La crisi ha
investito anche noi in Germania, è un momento molto difficile e pericoloso
per la cultura. Da 50 anni si dice che l'opera è moribonda, ma se continua
così rischiamo veramente di ucciderla".
Cosa ricorda di quel
Così fan tutte diretto da Strehler al Piccolo? Il regista morì il giorno di
Natale del '97, prima che lo spettacolo debuttasse. "Fu
un'esperienza unica, una lezione che non ha mai smesso di essermi utile.
Risento ancora le sue parole: "Devi ricreare in ogni replica una scena da
zero, a seconda dei tuoi pensieri e delle tue emozioni". Il teatro d'opera
c'è arrivato quindici anni dopo, oggi è la condizione per affrontare una
carriera; il canto non basta più, bisogna entrare nel personaggio. Dobbiamo
avvicinarci cinematograficamente alla lirica se vogliamo sopravvivere a
questa crisi, dobbiamo lavorare di fantasia e immaginazione. Ci sono attori,
anche famosi, che mi hanno detto: "Vi invidio, avete una colonna sonora
meravigliosa ed emozionante sulla quale recitare, noi dobbiamo creare ogni
cosa da zero, nel silenzio"".
Lei infatti non è soltanto il
"King of tenors" consacrato dalla critica internazionale ma anche un
magnifico attore. È frutto di studio? "Studio di vita. Mi basta
osservare le persone, i comportamenti. Quando devo creare un personaggio
ripenso a una mania, anche a un tic che ho visto in strada. Fin da piccolo
avevo una certa facilità a impersonare, dando voce contemporaneamente a due
diversi caratteri, magari solo raccontando una barzelletta".
Ha dovuto sacrificare molto della sua vita privata? "La nostra è
una vita di rinunce. Ho letto storie di cantanti che non parlavano per tre
giorni prima del debutto, comunicando solo a gesti o magari fischiando;
artisti che hanno sofferto per mantenere la voce a un livello alto. È una
decisione personale, ma io detesto l'idea di non avere una vita. Nel momento
in cui si sacrifica troppo alla carriera si resta privi di emozioni, di
positività, di energia, di tutto quel di cui c'è bisogno per far vivere sul
palco i nostri eroi e infiammare il pubblico".
Lei è
diventato una star della lirica in un periodo di crisi. Se le fosse concesso
di viaggiare nel tempo in quale epoca vorrebbe cantare? "Un
secolo fa, prima dell'avvento del cinematografo eravamo noi le uniche
superstar, trattati come dei, pagati cifre da capogiro, pensi a Caruso... Ma
francamente non rinuncerei a quel che ho oggi, una vita meno romantica ma
molto più pratica, veloce, con tutte le informazioni a disposizione. Non
sopporterei di stare in tournée troppo a lungo senza comunicare via skype
con la famiglia".
Qual è, come artista, la sua più grande
paura? "Fare troppo e ripetermi al punto da perdere la gioia di
fare musica. Senza una sana motivazione e l'entusiasmo necessario è molto
difficile fare la valigia per la prossima tournée".
E come
uomo? "Vedere che gli uomini continuano a fare gli stessi
errori". |
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