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Opera Disc, 17 Ottobre, 2015 |
Pietro Bagnoli |
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Aida
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Pregi: Kaufmann |
Confesso
di essere piuttosto freddo davanti a questo prodotto, sul quale pure
avevo molte aspettative. Prodotto che è molto buono in molte sue
parti (orchestra e coro), eccezionale in una componente (ovviamente
Kaufmann), ma talmente deficitario in altre da gettare una pesante
ipoteca sul risultato complessivo della produzione. Altrimenti detto:
in sala di registrazione non puoi avere un soprano che ha problemi non
banali con il do di Cieli azzurri; che, è vero, alla fine riesce, ma si
sente che è una nota posticcia appiccicata lì in qualche maniera. Ora,
questo può essere a malapena accettabile in una recita dal vivo, ma non
in sala di registrazione ove – per definizione – tutti i conti devono
tornare. In sala di registrazione non puoi avere un mezzosoprano la
cui unica preoccupazione è fare l’imitazione in scala ridotta di Elena
Obraztsova. In sala di registrazione non puoi avere un baritono a
fare una parte da basso di quelle che Verdi immaginò per i suoi
Sacerdoti, esponenti di una Chiesa militante priva di compassione.
Questi dati rispondono probabilmente a logiche di scuderia, forse alla
situazione attuale del mercato cantanti in alcuni ruoli chiave, oppure
sono la risposta ai desiderata del Direttore; in tutti i casi, il
risultato presta il fianco ad alcune considerazioni. Ma veniamo al
dettaglio.
La direzione di Pappano. Interessante, ma non
memorabile. Ben gestita, ricca di buonsenso, bella nei colori,
ragionevole e precisa nell’accompagnamento al canto. Quello che è
certo, è che si tratta di un passo indietro rispetto all’ultima
registrazione in studio significativa, e cioè quella di Harnoncourt che
pure presentava i limiti di cui abbiamo già parlato in altra sede.
Questa direzione è pompier spesso oltre i limiti della decenza; ma in
fondo lo si perdona per la bellezza degli splendidi colori
dell’orchestra e del coro di Santa Cecilia. La capacità di
affabulatore è sempre di alto livello; i colori sono splendidi;
l’attenzione al dettaglio è maniacale. Ma la storia esecutiva di Aida
non fa un solo passo in avanti con lui
Harteros. Di
prospettive estremamente limitate, la Harteros ha un solo colore e un
solo atteggiamento: la mestizia. È un salice piangente. Ascoltando più e
più volte la sua performance ho dovuto ripensare seriamente a Antonietta
Stella, Maria Chiara e altre cantanti che, pur non disponendo di mezzi
stratosferici, erano state in grado nel corso della loro carriera di
gestire al meglio il personaggio; persino la Ricciarelli con Abbado
riesce a essere più varia e personale. Questa si presenta come una
stella (con la minuscola) di primissima grandezza e non sa gestire il do
di Cieli azzurri. È vero che – come dicevo all’inizio – non costruisci
una prestazione su una nota, ma in sala di registrazione, per una di
quelle ormai rare occasioni in cui riesci a riunire cantanti, orchestra
e coro, devi avere tutto il meglio a disposizione, altrimenti è
un’occasione mancata. Non c’è una sola frase della Harteros che
meriti di essere ricordata. Il Ritorna vincitor! è buttato via; il
duetto con Amneris è di un piattume talmente imbarazzante da
classificarsi fra i peggiori che abbia mai sentito (ma il demerito va
diviso equamente con la Semenchuk); lo stesso dicasi per quello con
Amonasro, mentre lievemente meglio sono quelli con Radames, ma perché
trainata da un Kaufmann semplicemente stratosferico. Del Cieli
azzurri abbiamo già detto: è lo snodo della performance di qualunque
interprete di Aida, è il momento in cui devi far percepire lo
straniamento, la sospensione, l’ipnosi, il rimpianto per ciò che si è
perso, la nostalgia. Di tutto ciò, nel canto della Harteros, non c’è
nulla: siamo lontani le mille miglia da quanto faceva sentire nel 1955
la Callas con una voce ai minimi termini o da una Leontyne Price che
questa parte l’aveva nel sangue. Ma manca completamente anche il coté
regale, quello che dovrebbe animare la ribellione della Principessa.
Insomma, un disastro interpretativo e una prestazione vocale che, a
essere generosi, è problematica, probabilmente per carenza di peso
specifico.
Semenchuk. Ho telefonato a chi era presente per
capire che impressione facesse questo mezzosoprano dal vivo, perché
quella che ho avuto io è che nonostante la voce grossa dalle risonanze
uterine, in palese imitazione di modelli come Elena Obraztsova, fosse
sistematicamente coperta dall’orchestra. Coloro che ho contattato me
l’hanno confermato, il che genera la considerazione che non sempre
gonfiare le guance provoca un incremento del volume. Voce costruita,
artefatta, più grossa che grande. Le vocali non sono mai coperte, ma
cavernose, piene d’aria. Per capire cosa intendo, vale la pena di
ascoltare una vera voce di mezzosoprano, anzi di contralto come Kathleen
Ferrier. Scarso scavo della frase; poco o nullo approfondimento di un
personaggio che è fermo alla Cossotto, la quale, se non altro, nei suoi
tempi d’oro e per una certa parte di quelli… d’argento, di ferro e di
legno, era vocalmente irreprensibile. Possibile che nessun direttore
(nemmeno Harnoncourt che, non a caso, si era rifugiato dietro la robusta
canna della Borodina) abbia pensato a rivoluzionare una volta per tutte
questo personaggio che non è la virago dalla voce grossa? L’unico che,
in tempi più o meno recenti ci si era avvicinato, era stato Karajan con
Agnes Baltsa, personaggio peraltro troppo fuori dagli schemi per essere
indicato come standard di riferimento. Questa cantante dalla voce
ingrossata artificialmente, triviale, vociferante, non ha nulla della
Principessa d’Egitto. Butta via il duetto con Aida per ragioni non
differenti da quelle della sua collega. Butta via il fondamentale quarto
atto ciabattando allegramente nella parte a partire da L’aborrita rivale
sino a Pace t’invoco che non mi è mai sembrato così piatto e volgare.
Obraztsova? Non diciamo eresie. La Obraztsova, che io ho sentito dal
vivo, me la ricordo bene: tremava il lampadario, e non tanto per dire
Schrott. Per me inspiegabile come un cantante che aveva
dimostrato mezzi non comuni nel ribaltare personaggi triti e ritriti (si
pensi al suo Leporello) grazie alla sua capacità di scavo della frase e
a una discreta musicalità, si sia voluto reinventare in ruoli da basso
vero, per i quali non ha né la voce né l’autorità. Questo Ramfis, pur
non disastroso come altri esempi recenti di cantanti teoricamente più
adatti ma alla resa dei conti completamente sfiatati, è comunque
talmente sottodimensionato da risultare a tratti caricaturale, come per
esempio nella scena del Giudizio che affonda comunque anche per il
concorso della Semenchuk e di Pappano
Tézier Secondo me è
discreto, anche se cerca di fare il Grand Seigneur con mezzi non
all’altezza del progetto. Fondamentalmente anonimo: passa senza lasciar
traccia particolare
Kaufmann E così, questi dischi li si
compra fondamentalmente per la presenza catalizzatrice di Jonas
Kaufmann, qui alle prese con uno dei suoi ruoli storici, uno di quelli
che lui ha il potere di cambiare. Avevamo parlato maluccio del suo
recente disco di arie pucciniane; qui invece è superlativo nel trovare
tutte le intenzioni che erano annacquate o inespresse nel recital
dedicato a Manon Lescaut, Edgar e compagnia cantante. Tanto lì era
generico, annaspante, “tenorile” nel senso buono a tutti gli usi e
consumi; quanto qui è invece indispensabile e funzionale a un’ottica di
profondo rinnovamento del ruolo che aveva trovato una sua fugace
stagione di appropriatezza con Vickers, per poi ripiombare nel tenorismo
manicheo pret-à- porter di tutti gli altri, chi più chi meno, prima e
dopo. Il primo impatto è con un Celeste Aida giocato tutto su
sfumature di estasi e concluso da un si bemolle attaccato in pianissimo
e concluso smorzato. Per quanto mi riguarda, a mia memoria mai sentito
così. La partitura di quest’aria, impostata fra il soliloquio e il
vaneggiamento, è piena di segni di espressione che non vengono mai
rispettati: solitamente il tenore utilizza questo brano per farne il
manifesto dei propri polmoni, mentre invece Verdi è prodigo di “dolce”,
“sempre dolcissimo”, sino a un “morendo” che dovrebbe caratterizzare il
si bemolle conclusivo, la conclusione di una riflessione intima. A parte
Vickers con Solti, Kaufmann è l’unico che rispetta meticolosamente tutti
questi segni. L’amico Matteo Marazzi, che aveva accompagnato alla recita
i suoi soci, mi ricordava l’altro giorno che gli applausi erano stati
pochi e poco convinti, perché dal vivo dava l’idea di aver evitato il si
bemolle conclusivo; invece si era limitato a rispettare il “morendo”.
Lui ne conclude che in questa scelta di Kaufmann di riportare la
partitura alla sua realtà non ci sarebbe nulla di rivoluzionario; io la
penso diversamente, perché rinunciare agli acutazzi da Arena a costo di
non farsi capire dal pubblico che i latrati li esige, richiede coraggio.
La scena della consacrazione vede un interprete veemente. Il duetto
con Aida del terzo atto è ispiratissimo, ricco di nuances; e l’Io son
disonorato! è semplicemente favoloso. Ma, per belle che possano
essere state le performances precedenti, che dipingono un eroe
introverso, timido e complessato, è nel quarto atto che arriva il
capolavoro. Prima c’è una scena con Amneris ricca di virilità e di suoni
meravigliosi, in cui il tenore sovrasta nettamente la prestazione del
mezzosoprano. E poi c’è un finale magico, spettacolare, immenso, che
avrebbe avuto solo bisogno di un altro soprano per poter essere
indimenticabile. A partire da “Oh terra addio” inizia un momento
incredibile, perfetto, giocato sul filo di una mezzavoce estatica,
infinita: nessuno ha mai cantato il finale di “Aida” in questo modo.
Gli altri. Tutti insieme alla rinfusa: non fanno storia. Senza
infamia e senza lode.
Orchestra e coro Favolosi
Quindi,
impresa riuscita solo in parte, e cioè il versante tenorile, qui davvero
stratosferico. Anzi, storico. Per una volta, cerchiamo di non aver paura
a usare questo aggettivo. Il resto, purtroppo, è palesemente non
all’altezza e rende conto solo dell’enorme difficoltà attuale
nell’assemblare un cast adeguato a un’opera di grande repertorio.
Ma c’è Kaufmann. Lui è la Storia. Parafrasando gli spot Apple,
come sovente ci capita quando questo meraviglioso cantante è veramente
ispirato, adesso cambia tutto. Di nuovo. |
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