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Opera Click, 29 Nov 2021 |
Silvano Capecchi
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Verdi: Otello, Teatro San Carlo Napoli ab 21.11.2021
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Napoli - Teatro di San Carlo: Otello |
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Come prevedibile, conoscendo il talento di Mario Martone, tutte le
catastrofiche recensioni preventive che si sono scatenate, soprattutto sui
social, “prima della prima”, alla prova dei fatti si sgonfiavano. Anzi,
proprio quello che era risultato il bersaglio principale degli strali, cioè
la Desdemona-soldato, si rivelava la carta vincente dello spettacolo. Lo
spostamento della vicenda dalla Cipro del XV secolo ad un imprecisato sito
mediorientale della nostra epoca, con un esercito occidentale in missione di
pace, avrebbe dovuto essere indolore anche per i più irriducibili difensori
della fedeltà al libretto. Infatti Martone era molto ligio alla drammaturgia
originaria, tanto che all’inizio mi sono chiesto che senso avessero i
mutamenti di tempo e luogo se poi tutto scorreva nei canoni ordinari,
addirittura con il coro schierato al proscenio (“Dio fulgor della bufera”) o
seduto in cerchio e immobile (“Fuoco di gioia”) come negli allestimenti
ipertradizionali. Ma fin dall’apparire della protagonista femminile si
cominciava a cogliere il perché della trasposizione. Desdemona appariva come
una donna forte, amata, stimata, non la madonnina infilzata di troppe
versioni dell’opera verdiana. Nel secondo atto non stava seduta a ricevere
gli omaggi di donne, bambini e marinai, ma si prodigava nel curare e
alleviare le sofferenze di malati e feriti in un’infermeria da campo. Si
rivolgeva a Otello da pari a pari ed era costretta a cedere soltanto di
fronte alla forza brutale del maschio. Nell’ultimo atto puntava la pistola,
che teneva sotto il cuscino, contro il suo carnefice, ma invano, perché
veniva sopraffatta. In definitiva una denuncia della violenza nei confronti
delle donne che arriva fino ai nostri giorni, resa ancor più evidente alla
fine del secondo atto, quando prendono forma i propositi omicidi, con
l’apparizione di donne che cadevano a terra sugli ultimi accordi
dell’orchestra. La definizione degli altri due protagonisti maschili
seguivano binari più consueti. Jago veniva depurato da ascendenze demoniache
e da pose e ghigni da “cattivo” versione cartone animato (come non di rado
si è visto) per disegnare un uomo ambizioso, pronto a ogni bassezza pur di
raggiungere i propri scopi, pericoloso nella sua normalità. Otello
nascondeva dietro la scorza del soldato una fragilità di fondo, non derivata
dal colore della pelle (che era quella di un uomo caucasico) ma da motivi
più riposti, che lo rendevano preda delle trame ordite a suo danno, mettendo
a nudo le sue insicurezze che sfociavano nella brutalità. In definitiva una
messa in scena interessante, a tratti molto efficace, pur con qualche caduta
di tono; vedi la materializzazione dell’incontro amoroso di Cassio e
Desdemona durante “Era la notte”. Le visualizzazioni di ciò che viene
narrato sono quasi sempre inutili quando non pericolose, come in questo
caso, in cui i due attori sembravano non la visione di un sogno, ma una
coppietta passata di lì per caso a flirtare all’ombra delle rovine di un
sito archeologico. Altrettanto inutile ho trovato il colloquio mimato tra
Otello e Lodovico sull’introduzione orchestrale che apre il quarto atto.
Quarto atto che si rivelava il più efficace a livello narrativo, con una
tensione e un impatto teatrale di assoluto rilievo. Insomma un allestimento
che non meritava certo le contestazioni che, sembra, abbia ricevuto la sera
del 21 novembre. Alla seconda recita (quella a cui ho assistito) è invece
tutto filato liscio. Molto belle le scene di Margherita Palli e di grande
efficacia le luci di Pasquale Mari. Funzionali all’idea registica i costumi
di Ortensia De Francesco e i video di Alessandro Papa.
Michele
Mariotti affrontava per la prima volta Otello e la già eccellente prova
lasciava presagire sviluppi ancora più interessanti, quando potrà disporre
di un’orchestra a pieni ranghi, senza riduzioni per le note cause.
L'Orchestra che offriva una prova di gran professionalità, come pure il
Coro, rinato sotto la preziosa guida di José Luis Basso. Trasparenza di
suono, grande varietà dinamica e di colori, tensione narrativa erano le
caratteristiche più evidenti della direzione. Molte frasi assumevano
caratteristiche nuove, specialmente in certe espressioni spinte fino al
sussurro, che Mariotti si poteva permettere grazie ad una compagnia di canto
di grande duttilità in grado di seguirlo senza affanni.
Jonas
Kaufmann riceve spesso critiche anche aspre (soprattutto sui social, perché
in teatro raccoglie un trionfo dietro l’altro) a causa di una tecnica per
certi aspetti eterodossa. Si tratta però di un metodo che il tenore tedesco
si è creato e che per lui funziona benissimo, visto che all’età di
cinquantadue anni e dopo ventisette anni di onerosa carriera si presentava
in ottima forma affrontando senza alcun cedimento un ruolo monstre come
Otello. Certamente ne fa una creazione tutta sua e in certi momenti
(“Esultate”, “Abbasso le spade”, “Ora e per sempre addio”, “Sì pel ciel
marmoreo giuro”) si desidererebbe una maggior consistenza sonora; ma,
ripeto, non c’è un passaggio che accusi incertezze o difficoltà, anche fra
quelli più ostici. E la mancanza del lato guerriero con sonorità e squillo
adeguati è compensato da una ricerca introspettiva che mette in rilievo gli
aspetti più intimi, che sono tanti e spesso trascurati. Così abbiamo un
duetto del primo atto esemplare per abbandono amoroso e ricerca di
sfumature, un “È il fazzoletto ch’io le diedi, pegno primo d’amor” estatico
e fra i più belli che abbia mai ascoltato, complice anche Mariotti,
naturalmente, un monologo del terzo atto lacerato, un “Niun mi tema”
ipnotico. E l’attore è pari al fraseggiatore.
Maria Agresta è una
delle grandi Desdemone dei nostri giorni e anche in questa occasione non è
venuta meno alla sua fama, presentandosi in ottima forma vocale e in più
sfruttando le occasioni di protagonismo che le offriva la regia, che le
permetteva di sfoggiare una bella autorità scenica, aiutata anche dalla
bella figura. La voce è ideale per il personaggio, dolce, rotonda. Il
soprano campano è in grado di emettere acuti luminosi, pianissimi che
galleggiano sul fiato e si espandono in ogni angolo del teatro; il legato è
d’alta scuola e il fraseggio mai banale.
Non avevo mai ascoltato dal
vivo Igor Golovatenko, baritono russo poco più che quarantenne e in carriera
da una quindicina di anni. Il timbro è piuttosto chiaro (cosa tutt’altro che
disdicevole per Jago) e la voce si proiettava con facilità nella sala,
piegandosi alle intenzioni dell’interprete con duttilità. Era anche un buon
attore e sottraeva Jago al birignao di certa tradizione, delineando
un’incarnazione del male inquietante proprio per la sua quotidiana
normalità.
Tra i ruoli non protagonistici si segnalavano l’Emilia di
Manuela Custer, brava nelle difficili frasi del quarto atto (ma stranamente
poco presente, forse perché arretrata in scena, nel quartetto del secondo),
Matteo Mezzaro, gradevole Roderigo, e Biagio Pizzuti, Montano di buon
rilievo.
Alessandro Liberatore (Cassio) mostrava voce di una certa
consistenza al centro, ma manifestava qualche disagio quando la tessitura si
elevava, soprattutto negli arabeschi del terzo atto.
Un poco carente
di autorità il Lodovico di Emanuele Cordaro e corretto l’Araldo di Francesco
Esposito.
Grande successo con ovazioni rivolte soprattutto a Michele
Mariotti, Jonas Kaufmann e Maria Agresta.
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