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il Corriere Musicale, 16 giugno 2015
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di Ilaria Badino |
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Konzert, Puccini, Teatro alla Scala, Milano, 14. Juni 2015
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Jonas Kaufmann, ovazioni ed empatia pucciniana |
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Il concerto del tenore al Teatro alla Scala conquista il pubblico milanese. Sarà proiettato in ottobre in più di mille sale internazionali |
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I DUE ENORMI CAMION tra via Filodrammatici e l’ingresso alle gallerie, le
telecamere disseminate qua e là tra palchi, platea e palcoscenico non
potevano non far presentire quello che poi si ha avuto la conferma ufficiale
che fosse: il concerto del 14 giugno scorso, ripreso con tutti i crismi,
sarà proiettato il prossimo ottobre in più di mille sale di quaranta Paesi.
Inoltre esso, le relative prove e – c’è da scommetterci – spezzoni
d’interviste al divin tenore andranno a formare un documentario sul rapporto
tra Jonas Kaufmann e l’opera pucciniana, per una buona metà da lui già
assaggiata e, stando a dichiarazioni e conseguenti risultati, gradita a
sommi livelli. Il tutto firmato dall’ottimo massimo Brian Large, forse
l’unico regista per musica operistica oggi degno di questo nome: uno del
quale si spera, insomma, che la voglia di andare in pensione non arrivi mai,
nonostante le settantasei candeline spente da non molto.
In un
tripudio di applausi e di «Bravo!», il tenore monacense conferma la propria
regola dei cinque bis eseguiti in concerti con orchestra
Dicevamo,
dunque, atmosfera da gran serata, con il palco ingentilito da calle e rose
bianche, con una Filarmonica della Scala in grande spolvero, capace di
tirare fuori al meglio sia la carezza che il pugno di questo melodismo
italiano spinto ai limiti estremi per vellutata morbidezza da un lato e per
densa, incontrovertibile verità drammatica dall’altro. Indi il direttore, il
diligente Jochen Rieder che ultimamente appare assai spesso a fianco del
Beneamato, tanto da averne diretto l’ultimo recital Sony «You Mean the World
to Me» ed il quale – a dire il vero –, s’è talvolta fatto un po’ troppo
prendere la mano dal fiume in piena pucciniano esaltandone alcune dinamiche
orchestrali a scapito della voce di tenore. Last but not the least,
ovviamente, dopo il Preludio sinfonico da Le Villi, fa la sua comparsa sulla
ribalta Lui, che gli anni sembrano non scalfire ma anzi rendere sempre più
atletico e fascinoso, pronto a misurarsi nell’aria tratta dalla medesima
opera: «Ecco la casa».
La voce è lì fin da subito, sempre connotata
da estrema duttilità fra i registri, dalle ormai leggendarie smorzature e
dall’acuto facile e stentoreo. Ma ciò che fa la differenza tra le prime due
arie ed il resto del programma cantato è dato dalla somma di coinvolgimento,
introspezione e finale resa empatica tra interprete, brano e pubblico. È
palese che sia il pezzo d’esordio sia quello seguente, «Orgia, chimera
dall’occhio vitreo» dall’Edgar, vedano Kaufmann cesellare molto meno testo e
musica rispetto a come eravamo stati abituati in qualsiasi altro repertorio,
vuoi per ancora parziale verdezza della scrittura pucciniana vuoi per un
approccio rapido e superficiale da parte del tenore, che non ha mai
interpretato le relative parti in scena. Le cose cominciano a cambiare, e a
girare decisamente meglio, quando si passa alle due arie selezionate tra le
cinque per tenore da Manon Lescaut: «Donna non vidi mai», ma, soprattutto,
«Ah! Non v’avvicinate!… No! No!… Pazzo son». È proprio a partire da questa
che in Kaufmann avviene la trasformazione tra pressoché perfetto esecutore a
interprete a tutto tondo: lo sguardo s’infiamma, si strugge, le mani vibrano
nel tentativo di trovare uno spazio scenico sul quale agire e che però non
c’è. Da questo momento in poi, il tenore torna ad essere quell’esempio
perfetto di mimesi con il ruolo cantato che, da circa un decennio, lo ha
reso eroe di due mondi: una specie di vulcano in procinto d’esplodere, cui
soltanto i limiti imposti dalla presenza dell’orchestra impediscono di
prendere totale possesso anche corporeo della parte.
Ad ulteriore
riconferma di questa teoria, «E lucevan le stelle», l’aria con cui il bel
Jonas ha di gran lunga la maggiore confidenza e musicale e scenica tra tutte
quelle proposte nel programma milanese, è un continuo, prodigioso
caleidoscopio di colori, nuance, ombre che si assommano, si amalgamano, si
sostituiscono l’uno all’altra: «mentr’io fremente» provoca davvero in lui un
brivido involontario – e chissà quanti lungo la schiena degli spettatori! –
ed il successivo «le belle forme disciogliea dai veli!» è sussurrato con un
filo di voce, rallentato quasi cinematograficamente (e
chelibidachianamente!) come ad amplificare la struggente sensazione di
nostalgia quasi fisica dell’estasi erotica.
Assai incisive paiono
anche «Una parola sola!… Or son sei mesi» dalla Fanciulla del West e
l’immancabile «Nessun dorma». Kaufmann non ha ancora vestito i panni di
Calaf in scena, ma qui i presupposti sono diversi: in varie interviste ha
ammesso di adorare il celebre brano, di sentirlo suo e di conoscerlo nel
dettaglio, solo di non averlo mai voluto cantare prima per non sciuparne la
bellezza proponendolo, come praticamente da sempre s’è connotato, come pezzo
strappapplausi da gran carrozzone. L’occasione giusta ora s’è profilata e lo
configura come l’acme di un concerto omnipucciniano: benvenuta, dunque, aria
delle arie.
In un tripudio di applausi e di «Bravo!», il tenore
monacense conferma la propria regola dei cinque bis eseguiti in concerti con
orchestra; nell’ordine: «Recondita armonia», ancora Fanciulla, ma questa
volta la splendida «Ch’ella mi creda» senza declamato iniziale, «Ombra di
nube» di Licinio Refice (che solo i più raffinati possono permettersi, tanto
per intenderci), «Non ti scordar di me» di Ernesto De Curtis, e di nuovo, ma
stavolta scravattatosi dal papillon, che temevamo – o forse speravamo –
sarebbe stato lanciato in platea, s’accinge ad intonare la regina delle
arie, ossia «Nessun dorma». Pasticcia con il testo, peccato tutt’altro che
veniale dal quale viene però salvato da un pubblico ormai completamente in
balia delle sue arti magiche: anche perché, se il divin tenore sbaglia,
risulta ancora più umano e simpatico.
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