Operaclick, 17 dicembre 2015
Silvano Capecchi
 
Berlioz: La damnation de Faust, Paris, Opera Bastille, 13. Dezember 2015

Parigi - Opéra Bastille: La Damnation de Faust
 
Nemmeno la terza rappresentazione de La Damnation de Faust all’Opéra Bastille è uscita indenne dalle contestazioni rivolte alla regia che, già piuttosto clamorose alle prime due recite, la sera del 13 dicembre si sono manifestate già dopo la Marcia ungherese e poi alla fine della prima parte (che raggruppava i primi due atti) e ancora più violente alla fine della serata.

Il regista Alvis Hermanis, molto apprezzato anche in Italia in occasione della messa in scena del capolavoro di Zinnermann, Die Soldaten, al Teatro alla Scala e di Jenufa di Janácek al Teatro Comunale di Bologna, oltre che nel teatro di prosa, realizza uno spettacolo complesso, non sempre di facile decifrazione. Decide di ispirarsi, per il personaggio di Faust, a Stephen Hawking, il celebre scienziato, che ha dedicato la vita soprattutto allo studio dei buchi neri e della nascita dell’universo; ammalato di una forma sclerosi laterale amiotrofica progressiva ma con evoluzione meno rapida delle più consuete forme di SLA, è confinato su una sedia a rotelle e riesce a comunicare con gli altri tramite sofisticate apparecchiature. In occasione del cinquantesimo anniversario della NASA (2008) pronunciò un discorso nel quale espresse la necessità per la razza umana di esplorare nuovi pianeti che potessero permettere la propria sopravvivenza. Ed è da questa particolare posizione che il regista lettone prende spunto per immaginare un viaggio senza ritorno ambientato nel 2025 al quale si sottopongono alcuni volontari per sperimentare la vita su Marte. Ora, le operazioni di cosiddetta destrutturazione, ossia la scomposizione di un testo e l’introduzione, parziale o totale, di una drammaturgia diversa dall’originale, se talvolta assurgono a risultati di una profondità che aggiunge nuova linfa al meccanismo teatrale (vedi Les Dialogues des Carmélites nella messa in scena di Tcherniakov), in altri casi i delicati equilibri tra musica, libretto e parte visiva possono alterarsi in maniera netta. È quanto succede, in buona parte, nel corso di questa Damnation in cui Hermanis mette fin troppa carne al fuoco. Hawking, onnipresente e immobile su sedia a rotelle per quasi tutta la durata della rappresentazione, solo alla fine si alza e inizia una pantomima nella quale, al centro di un gruppo di ballerini, sembra cercare di elevarsi verso l’alto (in un anelito di trascendenza? O più banalmente per indicare la via di scampo?); il tutto sulle note e il testo dell’Apoteosi di Maguerite. Mentre il suo alter ego (il tenore), quasi sempre al suo fianco, dopo aver visualizzato le emozioni e i pensieri di Hawking nelle due ore precedenti, si abbandona sulla carrozzella trasformandosi in un corpo inanimato. Méphistophélès è un altro scienziato che organizza il viaggio su Marte e cerca di adescare Faust con l’aiuto di demoni astronauti e un casco virtuale. I volontari sono trattati come cavie e ingabbiati per esperimenti vari; lo stesso Faust – Hawking, con sedia a rotelle annessa, è sottoposto a prove di compressione. Marguerite, una delle partecipanti all’esperimento, è l’elemento meno integrabile in questa produzione ed infatti le sue apparizioni appaiono come un corpo estraneo all’operazione. Con tutto questo Hermanis resta un artista di rara capacità tecnica, con un dominio degli strumenti visivi (luci, filmati) e capacità di gestire gli spazi e i movimenti scenici assoluti. Tuttavia un allestimento che necessiti della lettura del programma di sala, di un’introduzione parlata, nonché di “titoli di testa” per riuscire ad orientarsi in questa marea di citazioni, di idee proprie e prese in prestito, per di più, alla fine, rimanendo ugualmente con grossi dubbi di interpretazione, non mi sembra possa considerarsi una riuscita. E una parte di pubblico si scatena coinvolgendo nella protesta la coreografia di Alla Sigalova, i costumi di Christine Neumeister, le luci di Gleb Filshtinsky, la drammaturgia di Christian Longchamp, i video di Katrïna Nelburga, professionalissimi e a volte suggestivi, i quali però spesso spingevano a interrogarsi, senza risposta, su quale fosse il nesso con quello che si ascoltava e si vedeva in scena (vedi, solo per fare un esempio, le balene durante la canzone del Roi de Thulé); e naturalmente erano coinvolte la regia e le scene a firma Alvis Hermanis, che non mancava di sostenitori convinti, ai quali non sarebbe stato male chiedere lumi sui tanti punti rimastimi oscuri.

La parte musicale invece è non solo graziata dalle contestazioni, ma ha un’accoglienza entusiastica, con grida di approvazione, fischi all’americana e applausi ritmati.

Il più festeggiato è Jonas Kaufmann, in gran forma; capace di dominare con nonchalance la scabrosa partitura; a suo agio nella tessitura quasi baritonale dell’inizio, scala le impervie progressioni in alto del duetto del terzo atto con Marguerite (fino al do diesis acuto), con un suono misto ben timbrato e sonoro, legando la discesa alla zona centrale del pentagramma senza mostrare fratture o disuguaglianze. Un grande momento è Nature immense (con vulcano in eruzione alle sue spalle), applaudito a scena aperta, e ovunque il tenore sfoggia grande dominio del fiato, capacità di legare, controllo esemplare di una dinamica ricchissima, carisma, espressività, musicalità eccellente.

Quasi altrettanto festeggiato è Bryn Terfel (Méphistophélès), al quale basta entrare in scena per avere tutti gli occhi puntati su di sé. La tessitura gli sta a pennello, tanto che le consuete ruvidezze timbriche sono molto attenuate rispetto ad altre occasioni. Inoltre il suo francese è esemplare.
Bene anche Sophie Koch, la quale, soprattutto nella Canzone del Roi de Thulé, è capace di un canto sfumatissimo. Stile, eleganza e un trasporto palpitante ma non esibito, sono le prerogative più evidenti della sua Marguerite, la cui scrittura vocale non presenta ostacoli per l’artista francese. Peccato che la regia sembri trovare quasi d’intralcio l’unica figura femminile dell’opera (che opera poi non sarebbe in quanto nata come oratorio e solo successivamente rappresentata in forma scenica) e la ponga un po’ sullo sfondo, oltre a tutto privandola dell’Apoteosi finale. Tanto più che l’intesa col direttore è perfetta.
Philippe Jordan asseconda le nuances della Koch con un’agogica rilassata (a volte fin troppo, vedi D’amour l’ardente flamme), rende a meraviglia lo spirito della musica di Berlioz soprattutto nei brani più lirici. In altri momenti tende un po’ ad alzare il volume a scapito delle voci, ma nel complesso si tratta di una lettura equilibrata, impeccabile stilisticamente. Ottiene un suono morbido e soffice dall’Orchestre de l’Opéra National de Paris ed è un poco meno personale nei momenti più concitati.

A complemento di una serata senz’altro pregevole dal punto di vista musicale il gradevole baritono Edwin Crossley-Mercer, Brander musicale, ma solo un po’ in difetto quando la linea musicale scende a toccare zone più proprie del basso, Sophie Claisse, Voce celeste debitamente pura e luminosa, il Coro dell’Opéra National de Paris, impegnatissimo in questa produzione, diretto da José Luis Basso e infine l’onnipresente Dominique Mercy, uno dei grandi dansatori della compagnia di Pina Bausch, a interpretare Stephen Hawking.



















 
 
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