Classic Voice, aprile 2013
ROBERT LEVINE (traduzione di Carlo Vitali)
 
Wagner: Parsifal, Metropolitan Opera, Februar 2013

Wagner - Parsifal
 
"Jonas Kaufmann è un Parsifal perlopiù tranquillo, introspettivo ed esitante; dolce e insinuante il suo canto a mezza voce. Ma quando la tira fuori tutta, come in "Amfortas! Die Wunde!", reclama ben altra attenzione. Un' interpretazione stupenda"
 
Di cosa parla il Parsifal? Rito e preghiera? Salvezza e redenzione? Vita interiore rispecchiata nella Natura? Di quest'ultimo aspetto non v'è traccia nel nuovo allestimento del Metropolitan per la regia di Francois Girard. Il paesaggio scenografato da Michael Levy consiste in una terra arida costellata di piccoli tumuli e solcata da un rivolo d'acqua che scorre dal retropalco alla ribalta; all'arrivo di Amfortas si tinge di rosso: è la sua ferita resa universale. Le donne sono in scena, ma quel solco le separa dagli uomini. L'atto II presenta la ferita distesa di traverso sullo sfondo come una vagina gigante. Le Fanciulle-fiori, in bianca camicia da notte, brandiscono lance; per l'intero atto il palcoscenico è inondato di sangue. Compare un letto e le lenzuola se ne inzuppano: è il segno della "maledizione" mestruale o la ferita di Amfortas? Per tutta l'opera si susseguono le proiezioni mozzafiato di Peter Flaherty. Sono fondali che mimano il sangue, frammenti di sistema solare in pericoloso avvicinamento, macrofotografie anatomiche, minacciose meteore atmosferiche, una strana lanterna di lava. Né lago né foresta nel primo atto, nessun paesaggio primaverile nel terzo (nonostante la dichiarazione di Gurnemanz); nessuna delle due metamorfosi descritte trova riscontro fisico nella scenografia.

Nel terz'atto Amfortas scala la tomba di Titurel. Quando Parsifal battezza Kundry, il crepaccio si chiude e le donne lo varcano; anzi, Kundry apre lo scrigno che contiene il Graal. 11 crepaccio era una divisione sociale? Non ci si fa mai il segno della croce, sicché questo Parsifal non è dichiaratamente cristiano. Costumi semplici e moderni: camicia bianca e pantaloni scuri per gli uomini (che nel Preludio si erano tolti giacca e cravatta), abiti bianchi o neri per le donne silenziose.

Questa produzione gravita verso il registro apocalittico già visto a Baden-Baden (regia di Nicholas Lehnhoff, direzione di Kent Nagano; disponibile su Dvd Opus Arte). Le didascalie di Wagner non sono prese alla lettera nemmeno al Met, e Girard non si spreca. I Cavalieri del Graal si trovano chiaramente in uno stato di miseranda impotenza, eppure si attaccano a una quantità di riti che di solito nutrono la speranza, e perciò sono tanto popolari in ogni religione. Ma al termine della produzione di Girard non si prova sollievo. Si resta sì incuriositi, ma anche - per dirla alla buona -spompati. I Cavalieri avranno magari trovato un capo, ma il mondo esterno rimane sterile. 11 canto è più o meno quanto di meglio si possa trovare oggi. 11 Gumemanz di René Pape è infaticabile e imponente; la sua stanchezza nell'atto DI (proprio come Parsifal, anch'egli è piuttosto invecchiato dalla sua prima apparizione) si scorge nell'incesso e nel colore vocale. Ma l'emozione si ravviva in lui quando comprende che Parsifal potrebbe risolvere i problemi dei Cavalieri. Jonas Kaufmann è un Parsifal perlopiù tranquillo, introspettivo ed esitante; dolce e insinuante il suo canto a mezza voce. Ma quando la tira fuori tutta, come in "Amfortas! Die Wunde!", reclama ben altra attenzione. Un' interpretazione stupenda. Nel ruolo di Amfortas, Peter Mattei riesce quasi a rubargli la scena col terrificante realismo della sua sofferenza e del suo odio autodiretto.

Salvo un paio di acuti strillati, il soprano Katarina Dalayman (Kundry) arreca al secondo atto bel colore e seduzione, ma in questa regia c'è poca chimica tra lei e Kaufmann: all'apparire di Kundry, Parsifal si rimette la camicia come se avvertisse un pericolo o qualcosa di più materno; strano davvero. Evgeny Nikitin, basso-baritono ringhiante, cobra efficacemente il personaggio di Klingsor; il Titurel di Runi Brattaberg possiede innata nobiltà.

Difficile indovinare perché la direzione di Daniele Gatti appaia alquanto demotivata: forse la reticenza della regia lo ha indotto a tenere un profilo basso anche nella musica. Le lunghe e vellutate scene d'incantesimo sono quasi languide, mentre le esplosioni, perfino il delirio dei Cavalieri nell'ultimo atto, non sono mai grandiose. Orchestra e coro del Met ai massimi livelli. Si lascia il teatro in uno stato di gran confusione mentale, eppure affascinati.


















 
 
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