Amadeus, febbraio 2013
CESARE FERTONANI
 
Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, Dezember 2012

Barenboim e Kaufmann esemplari per il Lohengrin di Guth, più stranito viandante che luminoso cavaliere
 
Siamo a metà Ottocento, in un'ambientazione — il cortile interno di un palazzo di ringhiera, all'occasione riempito con alberi e uno stagno — che si vorrebbe alludesse alle trasformazioni in atto nella società europea di quel periodo. Il Lohengrin realizzato alla Scala da Claus Guth con le scene e i costumi di Christian Schmidt e la drammaturgia di Ronny Dietrich per l'apertura della stagione del duplice bicentenario Verdi-Wagner parte da questo sfondo. Ancora una volta dopo Die Frau ohne Schatten, allestita sempre alla Scala nel marzo scorso, l'impostazione dello spettacolo di Guth è psicoanalitica. Quando si gioca con l'inconscio, tutto sembra funzionare, ma i conti non tornano sino in fondo in questa lettura, peraltro intrigante, dell'opera di Wagner. Ci sono molti simboli, alcuni chiari altri inutilmente astrusi; e c'è la tendenza al didascalico accompagnamento scenico di eventi e personaggi evocati nel testo (il funerale del duca di Brabante, il fratello di Elsa). Ma ciò che appare più problematica e alla fine irrisolta è l'interpretazione della figura del protagonista.

Per Guth, Elsa è una povera visionaria psicopatica che vive in una dimensione trasognata, è afflitta da tic nervosi e sviene quasi a ogni istante; certo è colpevole, se non di aver ucciso ella stessa il fratello, di non averlo sorvegliato o aiutato mentre questi annegava. Dal canto suo, Lohengrin è una specie di stranito viandante che si presenta indifeso e tremante e lascia pensare più a Parsifal che al luminoso cavaliere tratteggiato da Wagner. Il loro destino è di incontrarsi, amarsi ma di non poter stare insieme; sono entrambi dei disadattati, altro che eroi. L'intuizione registica — sviluppata da un'idea di Adorno — consiste nel far sì che tutta l'opera appaia come una visione di Elsa, ma in diversi punti questo suggestivo capovolgimento e stravolgimento della dimensione eroica si pone in stridente frizione con la musica se non con il testo di Wagner. Si pensi in particolare ai passaggi in cui alla coppia di disadattati è non con il testo di Wagner. Si pensi in particolare ai passaggi in cui alla coppia di disadattati è sotteso il tema, inequivoco al di là di ogni dubbio, del Graal, e al terzo atto. Di questa lettura registica, Daniel Barenboim sembra però accogliere poco, modellando un'interpretazione musicale ammirevole e ricchissima di cui possiamo qui sottolineare soltanto alcuni aspetti essenziali: la precisione del ritmo drammatico, l'accuratezza nella definizione dei colori orchestrali, la lavorazione della trama sinfonica in un esito di straordinaria fluidità che ha la robustezza, la tensione e l'attrattiva di un'avventurosa narrazione. Jonas Kaufmann è un Lohengrin esemplare sulla scena e nella voce (brillante, ma anche capace di meravigliosi suoni filati), cui riesce di dar vita pure alle fragilità richieste dalla regia al personaggio senz'alcun impaccio. Impaccio che invece, nel ruolo di Elsa, ha mostrato dal punto di vista non vocale ma attoriale Ann Petersen, dopo l'autorevolezza esibita in ogni senso da Annette Dasch in occasione della prima e infine anche da Anja Harteros (che come si sa per ragioni di salute ha potuto cantare soltanto nelle ultime tre recite). A completare il cast, il Friedrich con qualche problema di tenuta e volume di voce di Tómas Tómasson, la Ortrud un po' troppo forzata ma efficace e in parte di Evelyn Herlitzius, e l'eccellente re Heinrich di René Pape. Di rilievo assoluto la qualità del coro e dell'orchestra.


















 
 
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