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myword.it, 2013-01-10
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Davide Cornacchione |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 18. Dezember 2012
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Un Lohengrin-Forrest Gump alla Scala
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Il figlio del “puro folle” Parsifal diventa “eroe suo malgrado” nel nuovo
allestimento firmato da Claus Guth che non ha convinto. Ottime invece la
direzione di Barenboim, i cantanti, orchestra e coro
Anche il
Lohengrin inaugurale della stagione 2012/13 non è sfuggito dalla tradizione
che vuole le ultime produzioni wagneriane del Teatro alla Scala
caratterizzate da un’ottima riuscita dal punto di vista musicale e da
messinscene nel migliore dei casi discutibili, eccezion fatta per l’ottimo
Tristan und Isolde firmato Barenboim-Chéreau.
Il regista tedesco
Claus Guth, autore dell’allestimento insieme allo scenografo e costumista
Christian Schmidt, ha scelto di accantonare l’aspetto eroico-mitologico
della vicenda per imboccare la via della psicoanalisi, operando quindi un
complesso lavoro di scavo nella memoria e nell’inconscio dei singoli
protagonisti.
Senza volerci addentrare troppo nell’esegesi di uno
spettacolo cerebrale e macchinoso come pochi, diremo solo che l’idea di
partenza era quella di fare di Lohengrin una sorta di “eroe suo malgrado”,
ovvero una persona la quale, più per caso che per scelta, si trova a
compiere un gesto importante e perciò si trova rivestito di tutti gli onori
e tutte le aspettative che il suo nuovo ruolo comporta. Aspettative cui il
suo fragile carattere non riuscirà a fare totalmente fronte e che lo
porteranno quindi alla morte, presumibilmente per nevrosi, vista la lunga
serie di crisi di narcolessia/epilessia che il regista gli riserva nel corso
di tutto lo spettacolo.
Va comunque riconosciuto che l’idea, che
prevedeva lo spostamento della vicenda alla metà del XIX secolo, sulla carta
si presentava decisamente interessante e che non sono mancati alcuni momenti
in cui è stata sviluppata in maniera convincente, quali ad esempio il finale
del primo atto in cui al protagonista viene fatta indossare una giacca
militare e viene fatto sedere alla scrivania di Heinrich, in posizione di
comando, oppure nel corso del secondo atto, quando tutto il popolo si toglie
la giacca formando una lunga passatoia sulla quale l’eroe scalzo può
camminare liberamente.
Tutto ciò ha funzionato molto bene
grazie all’ottimo Jonas Kaufmann che ha rivestito con convinzione i panni di
questo Lohengrin un po’ Forrest Gump, la cui reazione in questi frangenti
era sempre un misto di sbigottimento e divertimento.
Vero è
che la partitura è complessa e, soprattutto, lunga, ed un’idea, per quanto
buona possa essere, difficilmente riesce a reggere per l’intera durata
dell’opera. Così Guth, per compensare l’inevitabile horror vacui, si è
andato a rifugiare nei più classici (e triti) stereotipi cui le regie
intellettuali di matrice tedesca ci hanno abituati nel corso degli ultimi
decenni.
Ecco quindi in scena gli immancabili bambini a fungere da
doppio dei protagonisti (infanzia perduta o, più probabilmente mai
superata?); l’altrettanto immancabile pianoforte, feticcio borghese (usato
peraltro anche da Lenhoff nella precedente edizione scaligera) che da una
parte può rimandare al compositore stesso e dall’altra costituisce una sorta
di luogo di rifugio per Elsa. Luogo nel quale si devono essere verificati in
passato anche dei contrasti con Ortrud, che in un’occasione prende
Elsa-bambina a bacchettate e un un’altra, ormai adulta, le chiude il
coperchio sulle dita mentre sta suonando.
Segue una lunghissima serie
di simbologie tra cui citiamo il famigerato cigno che non c’è, ma le cui
piume accompagnano tutta l’opera; o la giacca del fratello morto a cui Elsa
resta aggrappata sino al finale; o lo sgabello-trespolo su cui sempre Elsa
si arrampica nel corso del primo atto e dal quale assiste al duello tra
Lohengrin e Telramund come un giudice di sedia a un incontro di tennis.
Scelte registiche che pur non disturbando in modo particolare, si sarebbero
potute anche evitare visto l’eccellente livello della parte musicale, che da
sola avrebbe potuto sopperire ad ogni carenza visiva.
Daniel
Barenboim ha diretto Wagner come lui sa fare e come ormai alla Scala siamo
abituati a sentire. Il suo Lohengrin prende molto le distanze da una certa
tradizione che lo vorrebbe come la più “italiana” delle opere del
compositore di Lipsia e tende invece ad avvicinarsi ai titoli che
seguiranno. È un Lohengrin tedesco, che strizza l’occhio a Tristan e,
soprattutto, alla Tetralogia. Le leggerezze e le trasparenze degli archi di
un Abbado o di un Gatti lasciano il posto ad un suono più robusto e corposo
in cui sono gli ottoni a risaltare maggiormente. Circondati da tale tessuto
orchestrale abbiamo potuto ascoltare un ensemble di cantanti di rara
eccellenza.
Jonas Kaufmann è stato, leibnizianamente, il
migliore dei Lohengrin possibili. Il timbro brunito e quasi baritonale ha
poco a che spartire con il classico heldentenor, tuttavia l’emissione è
magnifica e l’interpretazione da antologia. Emblematica a questo proposito
l’esecuzione tutta in pianissimo di “In fernem Land”, complice anche
un’orchestra tenuta su sonorità di un quartetto d’archi. Un capolavoro.
Magnifica anche la Elsa di Anja Harteros, al debutto in questa
produzione dopo aver saltato le prime repliche causa influenza. Cantante e
attrice eccellente, ha saputo perfettamente assecondare, anzi, verrebbe da
dire esaltare, la complessa lettura che il regista ha dato del suo
personaggio. Non ascrivibile nella categoria delle fuoriclasse ma
sicuramente in quella delle grandi interpreti, Evelyn Herlitzius è stata una
Ortrud impeccabile. Il suo lungo duetto del secondo atto con Elsa è stato
uno dei momenti più alti dello spettacolo, mentre lo stesso non si può dire
della scena precedente con Telramund a causa della non impeccabile
esecuzione di Tómas Tómasson: emissione forzata e difficoltà nell’acuto
hanno costituito un limite non facilmente aggirabile dal baritono. René Pape
ha un timbro ed un’autorevolezza che gli hanno consentito di delineare un
Heinrich impeccabile, mentre Zeljko Lucic è stato un araldo di tutto
rispetto. Come ormai d’abitudine, ma vale sempre la pena di ricordarlo, il
migliore in scena è stato comunque il coro, magistralmente diretto da Bruno
Casoni.
Al termine della rappresentazione il pubblico ha
decretato un successo senza riserve per tutti gli interpreti con vere e
proprie ovazioni per Kaufmann, Harteros e Barenboim, infischiandosene di
quanti scioccamente hanno criticato la scelta di inaugurare la stagione del
bicentenario Verdi-Wagner con un’opera del compositore tedesco.
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