|
|
|
|
|
Drammaturgia.it, 10/01/2013
|
di Vincenzo Borghetti |
|
Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, Dezember 2012
|
L'uomo dei sogni
|
|
Lohengrin è una fiaba fuori tempo massimo. L’Ottocento, infatti, è il secolo
che ha perso l’innocenza, e alle fiabe non ci crede più. È anche però il
secolo segnato da un’autentica ossessione per le fiabe, l’epoca in cui le
fiabe si raccolgono, si catalogano, si studiano, si analizzano, si leggono e
si riproducono, per godere in modo cosciente della loro “ingenuità”,
provando allo stesso tempo il brivido degli abissi inquietanti che questa
stessa ingenuità offre a lettori ormai moderni. Nelle fiabe Wagner e il suo
secolo iniziano a vedere nient’altro che trasposizioni archetipiche di
storie tutte contemporanee, in cui i mostri non sono che i nostri traumi, e
in cui anche gli incantesimi buoni celano sempre un lato minaccioso: la
psicanalisi è, in fondo, una delle poche “fiabe” possibili della modernità.
La Scala ha affidato l’opera d’inaugurazione della stagione 2013 a Claus
Guth, che ha offerto una delle prove migliori nel campo della regia
wagneriana contemporanea, sia per l’efficacia scenica, sia per la profondità
intellettuale della sua interpretazione. Anche stavolta il regista tedesco
ha fatto della psicanalisi l’elemento base della sua produzione. Questa è in
generale una caratteristica di Guth, come si è potuto notare mettendo a
confronto le sue recenti regie per la Scala. Tuttavia, nonostante qualche
elemento ricorrente (soprattutto sul piano visivo), il suo Lohengrin è stato
molto diverso dalla sua precedente, altrettanto splendida messinscena
“psicanalitica” vista a Milano, Die Frau ohne Schatten dello scorso marzo. E
questa varietà è tanto più notevole, poiché non sempre distingue gli
allestimenti dello stesso regista presentati di recente in questo teatro,
come, per esempio, L’Orfeo e Il ritorno di Ulisse in patria per la regia di
Robert Wilson rispettivamente delle stagioni 2009 e 2011.
Nel
Lohengrin di Guth l’azione si svolge nel cortile di un non meglio
specificato edificio (una caserma? una scuola? un condominio?): ciò che
importa è che siamo in pieno Ottocento, con scene e costumi modellati su
esempi della metà del secolo (scene e costumi di Christian Schmidt). Elsa è
una fanciulla segnata da un trauma (la morte del fratello Gottfried, subito
evocata al levarsi del sipario all’inizio del primo atto) e dai soprusi
subiti in un’infanzia senza genitori (la vediamo bambina bacchettata da
Ortrud, la sua istitutrice-insegnante di pianoforte, cattiva come nella
migliore tradizione narrativa ottocentesca): Lohengrin è per lei non tanto
il cavaliere miracoloso che arriva sul cigno, ma l’amico immaginario sognato
come unico sollievo in un presente difficile. Sia Elsa sia Lohengrin hanno
una passione per la musica: nei momenti di massima tensione emotiva o di
paura entrambi si nascondono dietro il pianoforte (altro elemento
tipicamente ottocentesco sempre presente in scena): Guth rappresenta così il
ruolo che la modernità assegna alla musica, un regno sicuro al riparo dalla
dura realtà quotidiana, un rifugio per l’individuo contemporaneo assediato
dalle difficoltà della società moderna. Il mondo dei sogni di Elsa, però,
non è alla fine migliore di quello reale (in termini psicanalitici, non può
esserlo): il suo “cavaliere” è nel profondo non meno disturbato di quanto
lei non sia: Lohengrin va in giro scalzo, ha strani tremolii e gesti
inconsulti, sembra a disagio di fronte alle acclamazioni del popolo, e, alla
fine si distende al suolo e muore, nella stessa posizione in cui era
spuntato fuori dal nulla per la prima volta. Questa è una breve descrizione
che non può nemmeno da lontano tentare di rendere giustizia alla complessità
e ricchezza della regia di Guth, che, particolare non scontato, ha prestato
grande cura alla recitazione dei cantanti e del coro. Come la sua precedente
Die Frau ohne Schatten, questo Lohengrin è uno degli spettacoli migliori che
abbia visto, non solo nel 2012, e certamente un ottimo inizio di stagione
per il teatro milanese.
La direzione di Daniel Barenboim si è sposata
perfettamente con la messinscena di Guth, offrendo una lettura della
partitura energica, nervosa, a tratti di una languidezza estenuante, ma
sempre di grande teatralità. Eccellente è stata la prova sia del coro
(preparato come sempre in modo impeccabile da Bruno Casoni), sia
dell’Orchestra. Lo stesso si può dire del cast vocale. Željko Lučić è un
vero lusso in un ruolo non principale (Der Heerrufer des Königs), la sua
voce di baritono è senz’altro più ferma e a fuoco di quella di Tómas
Tómasson, un Friederich von Telramund passionale ma affaticato nel secondo
atto. Con la sua autorevolezza vocale René Pape ha tratteggiato un re
Heinrich del Vogler ricco di sfumature, mentre Evelyn Herlitzius è stata una
Ortud impetuosa, con acuti e gravi sicuri e sonori (se per il troppo impeto
le note acute di tanto in tanto erano gridate, erano comunque funzionali
alla caratterizzazione barbara e malefica del suo personaggio). Anja
Harteros (Elsa) ha cancellato per indisposizione le prime tre recite,
sostituita all’ultimo minuto da Annette Dasch, che ha letteralmente salvato
la prima del 7 dicembre, volando da Berlino il giorno prima (dove cantava
nella Finta giardiniera di Mozart!), e offrendo un’esecuzione molto
convincente del personaggio (è quella trasmessa in televisione). Il 21
dicembre Harteros è tornata alla Scala in forma vocale smagliante: la sua è
stata una Elsa di grande intensità, perfetta nel conferire ricchezza di
colori e profondità psicologica a quello che è forse il personaggio più
monocorde dell’opera. Onestamente, nella mia esperienza di
spettatore d’opera solo molto di rado ho assistito a un’interpretazione così
convincente e coinvolgente, sia dal punto di vista musicale che teatrale,
come il Lohengrin di Jonas Kaufmann: il suo terzo atto è stato un tale
capolavoro di recitazione vocale e fisica, che il pubblico ne è rimasto
letteralmente soggiogato, a giudicare dal silenzio concentrato con cui è
stato seguito, e dall’ovazione entusiastica che il cantante ha ricevuto alle
chiamate finali.
|
|
|
|
|
|
|