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Il Sole 24 ore, 9/12/2012 |
Carla Moreni |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Eccelsi bicentenari nel duello delle prime
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Non era tra Verdi e Wagner, il duello. Era tra due città, Roma e Milano, due
teatri, Scala e Opera, due direttori, Muti e Barenboim. Chiuse trionfalmente
entrambe le inaugurazioni, le carte si possono scoprire. Con una premessa:
teniamoci cari questi duelli. Testimoniano un primato della nostra civiltà
musicale. Un'eccellenza che altrove non esiste. Inarcate il sopracciglio?
Trovate un altro Paese nel mondo, che nel giro di dieci giorni sfoggi i nomi
di una doppietta di questo livello. .............. Daniel Barenboim
alla Scala ha consegnato un Wagner come sa dirigerlo solo lui: tenuto nella
complessità di un'unica arcata, in tensione ipnotica da inizio a fine, con
un dominio della massa di orchestra-coro-solisti magistrale. Il Preludio di
apertura era una lezione sul dirigere senza segno di battuta, col suono che
diventa spazio, i timbri come lampi di acciaio, la quinta finale la-mi
sbalzata come un approdo, contenente già tutta la spiritualità dell'opera.
Col secondo atto disegnato come epitome del negativo, compatto nel disegno
formale, sul nervo scoperto del "mai devi domandarmi". Quando la musica
diventa pensiero. E col terzo disgregato sugli affetti infranti,
sull'impossibile felicità. Quando si avanzano riserve sul gesto direttoriale
di Barenboim, lo si guardi in Wagner: qui è bellissimo. Perché qui ci crede.
All'opposto di Roma, Lohengrin vantava una compagnia di
fuoriclasse. Ma col colpo di scena della primadonna sostituita
nella notte della prima: Annette Dasch è uscita meravigliosamente
vittoriosa, sia perché ha la statura della straordinaria professionista
(dove sono le scuole di canto in Italia che stiano alla pari con la
Germania?), sia perché aveva intorno la trama di un progetto teatrale,
preparato nel dettaglio, profondo, dove tutti l'hanno accolta come il
tassello che mancava. Superbo Jonas Kaufmann, letteralmente
reinventato sulla vocalità dell'anti-eroe: sarà difficile non pensare a lui
come modello assoluto di Lohengrin. Tra la sua frase di entrata, sillabata
rincantucciato a terra, smarrito, con cenni di epilessia, e il racconto
ormai metafisico (sottovoce ma riempie come pochi la sala!) del terzo atto,
si esplora un mondo di affetti, mai toccato tanto nel profondo.
Complessa l'attrazione verso il male di Ortrud, la tagliente e diabolica
Evelyn Herlitzius. C'è un vecchio pianoforte verticale, onnipresente in
scena (citazione di uno di Wagner) simbolo della casa borghese tedesca. La
malvagia ex maestra chiude a Elsa la mano sotto il coperchio. È un gesto,
dice tutto. Umanissimo, a contrasto, il re di Renè Pape, incarnazione della
tenerezza nel potere. Ottimi Tomas Tomasson, Telramund, e Zeljko Lucic,
l'araldo: il primo atto prende con loro una tinta scura impareggiabile. Il
Coro di Bruno Casoni recita come non mai, ma intanto sfoggia una tinta
morbida che schiude poesia, anche nei momenti teutonici. La regia di Claus
Guth è in ogni frazione di secondo commovente teatro in musica, pensato in
squadra, con lo scenografo Christian Schmidt. E il cigno c'era: da inizio a
fine, nascosto tra piumette svolazzanti. Alla fine sublime, una luce
tremolante, in alto sul soffitto del teatro. Spettacolo magnetico,
romantico, che racconta, resta, fa pensare.
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