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Milano Finanza, 8/12/2012 |
di Giuseppe Pennisi |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Lohengrin scalda gli animi
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Regia discussa all'inaugurazione della Scala |
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E infine arrivò il Lohengrin, di cui si parlava da settimane sia per la
scelta di Wagner come autore con cui iniziare la stagione scaligera (nel
1813 sono nati sia Wagner sia Verdi) sia per la lettura innovativa, e
provocatoria, annunciata da Ronny Dietrich (drammaturgo) e Claus Guth
(regista).
In effetti, nonostante le ovazioni a Barenboim,
all'orchestra, ai cantanti e al coro (che in Lohengrin è protagonista), nel
pubblico e ancor di più tra i critici in sala, serpeggiavano forti
perplessità sull'allestimento scenico e sulla drammaturgia. Guth è un
regista apprezzabile: è stata di alto livello la sua trilogia Da
Ponte-Mozart a Salisburgo (soprattutto Le nozze di Figaro) così come la sua
lettura nella scorsa stagione de La donna senz'ombra di Richard Strauss alla
Scala. Tuttavia questo è un Lohengrin per iniziati: pochi sanno, per
esempio, che la scena firmata da Christian Schmidt per i costumi rappresenta
il cortile di casa Wagner, denso di traumi e di rapporti familiari molto
tesi. La chiave di lettura, poi, si svela unicamente al terzo atto dopo
oltre tre ore in teatro: pone l'accento sulla psicoanalisi coeva della Donna
senz'ombra ma distante anni luce dalla poetica di Wagner. Per Guth e
Dietrich, Lohengrin ed Elsa sono due altèri o outsider in un mondo di
capitalismo nascente che essi non comprendono, che non li comprende e che
porta alla tragedia finale. La recitazione è accuratissima e ogni mossa è
studiata, sebbene sembri naturale. Nel complesso dunque la regia non è
banale ma resta oscura per molti spettatori.
Inoltre in Wagner
Lohengrin non tratta soltanto di rapporto di coppia. Nella «grande opera
romantica in tre atti», come venne sottotitolata dall'autore, Elsa e il
Cavaliere del Cigno non riescono a comunicare, fin dalla prima notte di
nozze, poiché mancano di reciproca fiducia. Altri due elementi fondanti sono
il contesto storico (l'alleanza dei popoli tedeschi per respingere invasioni
dall'Est) e i primi passi del cristianesimo in un mondo ancora pagano.
Questi due aspetti vengono ignorati da Guth e Dietrich ma non dalla
partitura.
Di grande livello la parte musicale. Fin dalle prime
battute dell'ouverture Barenboim dà un'interpretazione lenta, solenne, quasi
mistica del lavoro che fa risaltare ancora di più l'inizio ''agitato'' del
terzo atto (quando stringe i tempi per preparare la tragedia finale).
Jonas Kaufmann è un perfetto protagonista, costretto a equilibrismi
d'atleta (canta steso per terra l'aria iniziale, volgendo le spalle al
pubblico e alzandosi lentamente fino a guardare la platea), ha un legato
dolcissimo, un fraseggio da manuale e, nel racconto finale, sale lentamente
dal ''pianissimo'' all'acuto. Unicamente Evelyn Herlitzius è alla
sua altezza. Buoni i due soprano che si alternano nel ruolo di Elsa, più
dolce Ann Petersen e più sensuale Anja Harteros. René Pape è ancora un
efficace Re Enrico. Il cattivo Federico Telramondo è un Tómas Tómasson agli
scatti finali di una gloriosa carriera. Merita elogi il coro scaligero che,
guidato da Bruno Casoni, ha dato il meglio di sé in un ruolo complesso,
denso di passaggi impervi.
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