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GB Opera, gennaio 21, 2012 |
Alice Zhang
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Verdi: Don Carlo, München, 15. Januar 2012
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Monaco di Baviera, Bayerische Staatsoper: “Don Carlo”
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La presentazione in cinque atti del Bayerische Staatsoper della grand opéra
in francese di Verdi, Don Carlo, cantata in italiano, si è rivelata ben
degna del viaggio da San Francisco a Monaco. Anche senza il balletto e il
coro dei taglialegna del preludio, questa produzione dura quattro
interminabili ore, con un solo intervallo. Fortunatamente, il robusto cast e
la regia appassionata hanno reso ogni momento un’esperienza catartica e
affascinante, al punto che chi scrive ha assistito a tre esibizioni in otto
giorni.
Il costumista e scenografo divenuto regista, Jürgen Rose, che
si è assunto il compito ciclopico di coprire tutti e tre i ruoli in questa
produzione, ha svolto il suo lavoro in maniera egregia, creando un’atmosfera
di verosimiglianza che richiede una sospensione dell’incredulità minima da
parte del pubblico. Pur essendo buia ed essenziale, la scenografia era
appropriata e ben progettata per permettere una fluida transizione da scena
a scena. I costumi, per la maggior parte, erano storicamente accurati, con
riferimenti ai dipinti di Goya, El Greco, Coello, e in particolare al San
Francesco che tiene un teschio nelle mani di Zurbarán – un’immagine che si
accompagna ottimamente al tema della contemplazione amletica della morte che
si dipana per tutta l’opera. Abbastanza interessante il fatto che, al posto
del tipico rosso cardinale, Rose abbia vestito il Grande Inquisitore e i
suoi lacché incappucciati dello stesso impressionante color porpora dello
Study after Velázquez’s Portrait of Pope Innocent X di Francis Bacon. L’uso
deliberato e di grande impatto di questo colore ha amplificato il terrore
dell’auto-da-fé rosso e nero con la sua impressionante processione di
tableaux vivants che riraevano varie scene tratte dalla Passione di Cristo
(la flagellazione, Cristo che porta la croce, la crocifissione, ecc.)
insieme all’effettivo rogo degli eretici con palo, fuoco e tutto il resto.
Jonas Kaufmann, come sempre, ha deliziato il pubblico con la sua voce
brillante, potente dal suono italianizzato e dallo squillo argenteo.
Eccellente nella sua aria di apertura, “Io la vidi,” si è dimostrato in
ottima forma per tutta la serata. Il suo ritratto dell’Infante è stato
azzeccato e fedele al personaggio – impulsivo, governato dalle sue passioni
con crisi violenti e instabilità mentale. Nel loro duetto durante l’atto di
Fontainebleau (“Di quale amor, di quanto ardor)” sia Kaufmann che Anja
Harteros (Elisabetta di Valois), esprimevano una giovinezza appropriata ai
loro ruoli adolescenziali. Sembravano genuinamente innamorati, spensierati e
giocosi, creando un grande contrasto con il seguente stato di melanconia e
tristezza. La Harteros è stata una divina, statuaria Elisabetta dalla
bellezza impressionante e una voce ineccepibile dotata del peso e della
drammaticità di un vero soprano verdiano. Le sue note alte, anche a mezza
voce, erano naturali e mai stridule. La sua aria finale, ”Tu che le vanità,”
piena di convinzione e nostalgia è stata accolta da un’autentica ovazione.
Rodrigo, è stato interpretato da Boaz Daniel (che ha sostituito
all’ultimo minuto il previsto Mariusz Kwiecien). Daniel ha fornito una prova
coraggiosa ed ha fatto il suo dovere, mostrando solo un accenno
all’omosessualità nella sua estrema devozione a Carlo. Benché a volte
sovrastato dall’orchestra, è riuscito a tener testa efficacemente Kaufmann
nel duetto, “Dio, che nell’alma infondere,” dove le loro voci si sono
armonizzate gradevolmente e uniformemente mentre si giuravano amicizia
eterna. Eboli, interpretata dal mezzosoprano russo Anna Smirnova. La voce di
questa cantante era ampia, scura e piena, ma alquanto limitata nel canto di
agilità. Non è riuscita a sedurre il pubblico con la sua affannosa e
alquanto noiosa Canzone del Velo.” Come attrice, la sua prova era priva di
fascino, carisma e di spensierata malizia, elementi essenziali per questa
scena. Mentre i trilli nel suo registro basso erano puliti, accurati e
uniformemente spaziati, i successivi passaggi nelle colorature in acuto, in
cui si alternavano Fa e La erano sciatti e piatti in entrambi i casi. Si è,
tuttavia, riscattata nella sua aria finale, “O don fatale,” in cui si è
abbandonata a un canto emotivo e ha brillantemente eseguito un Si acuto.
Eric Halfvarson, nel ruolo del Grande Inquisitore ha cantato con
autorevolezza e una crudeltà e freddezza. L’occasionale vibato nella sua
voce nei momenti cruciali, intenzionale o no, ha solo aumentato l’efficacia
e la credibilità della sua incarnazione dell’infermo novantenne. Il Monaco
(così come l’apparizione dell’Imperatore Carlo Quinto, creduto morto) è
stato cantato energicamente da Steve Humes.
La scena di René Pape,
“Ella giamma m’amo,” incuteva soggezione e commozione. Il punto più alto
della serata, sia dal punto di vista drammatico che da quello musicale.
Cantata con la sonorità del ruggito di un leone mescolata con sospiri e
singhiozzi in pianissimo, la sua intepretazione ha coperto la vasta gamma
delle emozioni che consumavano il travagliato monarca, dalla rabbia al
rimorso, dalla frustrazione alla disperazione, trasudando sia potere che
inerme rassegnazione. Attraverso il suo uso toccante della dinamica vocale,
l’eminente basso tedesco ha tirato fuori l’umanità e le dimensioni
sfaccettate di questo re legato dalle catene del dovere. Il pubblico ha
potuto vedere un Filippo completamente diverso, altrimenti nascosto sotto il
suo personaggio pubblico severo, incrollabile e a volte crudele. Prima di
quest’aria, Pape ha cantato il suo Filippo con formidabile vigore e
prepotenza. Ma qui, vulnerabile e tormentato, il suo ritratto intimista del
re ha magnetizzato tutti i presenti. Anche all’interno della stessa aria,
Filippo passa attraverso vari stati mentali contrastanti e Pape ha conferito
ad ognuno di essi un colore unico e distinto. La sua “Ove son?” ha veicolato
il tormento di un insonne disorientato che trema di terrore e paura mentre
canta “Se dorme il prence, veglia il traditore.” Particolarmente toccante
sono stati il suo uso della messa di voce in “Amor per me non ha” e nella
finale e rischiosa “Ella giamma m’amo,” un sussurro strozzato che strappa il
cuore. Talento vero al suo meglio. Meritevole di lodi anche l’assolo del
violoncello che ha suonato con grazia ammaliante.
Sotto la bacchetta
di Asher Fisch, l’orchestra non ha grandemente impressionato, ma si è
rivelata solida nei tempi e ha ben coadiuvato i cantanti. Il coro è suonato
sontuoso e solo in pochi momenti è sembrato anticipare leggermente
l’orchestra. Il compianto sul corpo di Posa, eliminato alla vigilia della
prima parigina del 1867 e poi trasformato da Verdi nel Lacrymosa della Messa
da Requiem, è stata reintrodotta per questa produzione. Questa sublime
musica di cordoglio cantata da Kaufmann, Pape, e il coro tutto maschile di
cortigiani ha reso ancor più memorabile questa serata.
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