GB Opera, febbraio 23, 2011

Andrea Dellabianca

Puccini: Tosca, Milano, 20.Februar 2011

Milano, Teatro alla Scala: “Tosca”
 
 
Il famigerato allestimento di “Tosca” con la regia di Luc Bondy approda finalmente al Teatro alla Scala di Milano, dopo aver debuttato nel 2009 alla Metropolitan Opera di New York e, lo scorso anno, alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Lo spettacolo, coprodotto dai tre teatri, porta il marchio di uno dei peggiori insuccessi nella storia recente del Met, il cui pubblico è notoriamente restio nei confronti di letture alternative dei titoli del grande repertorio. Si sa che su “Tosca”, la concezione registica e, soprattutto, scenografica di stampo zeffirelliano pesano come un macigno e chiunque voglia cimentarsi con l’allestimento di questo titolo, deve necessariamente fare i conti con tale eredità. Bondy polverizza la romanità di cui l’opera è intrisa, riducendo l’ambientazione a settings indefiniti e ripetitivi. I mattoni che compongono la scenografia di Richard Peduzzi, fanno assomigliare la basilica di Sant’Andrea della Valle ad un cantiere aperto, il secondo atto è un trionfo di nero e bordeaux (i muri ed i divani di un fantasioso Palazzo Farnese, i costumi sottotono di Milena Canonero), mentre, al terzo atto, le pallide luci di Michael Bauer, nella loro incongruenza, affaticano l’occhio dello spettatore, vanificando, peraltro, uno dei pochi momenti riusciti dell’intero spettacolo: il lanciarsi nel vuoto di Tosca, realizzato da Bondy con ingegnoso effetto. Ma c’è comunque del buono. Il personaggio del sagrestano, ad esempio, è tratteggiato molto bene fin dal suo ingresso. Scarpia che, seppur pugnalato ed agonizzante, stende dolcemente la mano verso il volto di Tosca, come per accarezzarlo. Il finale secondo, in cui Tosca, esterrefatta ed imbambolata, si trascina dal corpo esanime di Scarpia, fino ad un divano e vi si abbandona, svuotata, cullando la follia del proprio gesto con meccanici movimenti di ventaglio, immersa in una seducente luce crepuscolare. Musicalmente si è trattato di una prova di tutto rispetto, grazie soprattutto all’ottima direzione del giovane Omer Meir Wellber. Il direttore israeliano propone una lettura della partitura pucciniana dove i colori e, nota distintiva, il cantare dell’orchestra balzano immediatamente all’orecchio. Una certa tendenza all’esasperazione sonora, sia essa nell’uso di pianissimi che di fortissimi, è ravvisabile in alcuni momenti, ma si è certi che, con l’esperienza, questo talentuoso direttore saprà limare il proprio gesto in favore di dinamiche più equilibrate. Oksana Dyka faceva temere il peggio, dopo l’infausta Nedda nei recenti “Pagliacci” scaligeri, invece la sua Tosca si è espressa con un canto decoroso. L’emissione del soprano risulta sempre morbida: nessun problema per lei, gli scatti in acuto (do compresi) di cui la parte è costellata, risolti con note ben appoggiate. Il “Vissi d’arte”, nonostante un inizio impreciso nell’intonazione, scorre fluido ed espressivo, complice un’orchestra capace di creare un letto sonoro molto suggestivo. La relativa debolezza del registro centrale e qualche nota di petto non additabile a modello di gusto, non vanno ad inficiare una prestazione vocale nel complesso soddisfacente. Molta strada, invece, dev’essere ancora percorsa sul piano interpretativo-attoriale, dove questa Floria, al di là di prodursi in espressioni facciali esilaranti e numerosi ondeggiamenti di chiome, dice proprio poco. Al suo fianco, il Cavaradossi del divo Jonas Kaufmann. Il tenore svizzero-tedesco esibisce un timbro che è sì scuro, ma non tanto per qualità intrinseche, quanto per l’evidente componente di gola che caratterizza la sua emissione in zona centrale e grave. In acuto, le cose vanno meglio e, pur senza quello squillo che una sana tecnica di canto dovrebbe garantire, i suoni risultano ampi e perfettamente a fuoco (il vittoria…vittoria, in particolare, s’espande carico di brunite e voluttuose vibrazioni). Se l’aria di sortita evidenzia un buon legato ed un discreto controllo, “E lucevan le stelle” genera perplessità. Tutta la prima parte dell’aria è cantata con un inudibile filo di voce, spacciato per un pianissimo: risultato, questo, di un’impostazione tecnica che pare creata ad hoc per la sala d’incisione, ma che, dal vivo dell’ascolto in teatro, mostra impietosamente la sua caducità. Nemmeno la dizione, piuttosto nebulosa, può essere considerata un atout spendibile con profitto, al contrario della presenza scenica e del bell’aspetto, carte vincenti di Kaufmann sin dagli esordi. Zeljco Lucic, nei panni di Scarpia, ha dalla sua una proterva sensualità nei movimenti, che lo rende più affascinante che becero, anche se la personalità interpretativa che promana dal baritono serbo rende solo in parte la crudeltà a tutto tondo del personaggio. Vocalmente non ci si trova di fronte ad un fuoriclasse, tuttavia la sua linea di canto è abbastanza rifinita e, dopo un primo atto all’insegna del risparmio, sfodera tutte le sue armi, giungendo a risultati espressivi notevoli. Una nota di merito va al sagrestano simpaticamente schizzato da Renato Girolami, la cui chiarezza di dizione, assieme a quella dello Spoletta di Luca Casalin, dovrebbero suggerire una qualche riflessione. Molto bravi gli artisti del Coro del Teatro alla Scala che realizzano un “Te Deum” di grande efficacia.






 
 
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