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Opera Disc, 30/01/2010 |
Pietro Bagnoli |
Massenet: Werther, Paris, 26. Januar 2010 (TV)
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Editoriale: Le suggestioni del giovane Kaufmann
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Quella meritoria istituzione che è OperaShare
permette all’utente meno fortunato di godersi la prestazione di quello che –
a buon diritto – si può definire “il” Werther dei nostri tempi: Jonas
Kaufmann. Sfruttando l'opportunità mediatica, abbiamo scelto di estrarre
dalla rete il video di eccellente qualità che documenta uno spettacolo di
impostazione gradevole, piuttosto tradizionale, nobilitato dalla presenza di
uno stuolo di ottimi cantanti e di un fuoriclasse.
Il fuoriclasse è, ovviamente, Jonas Kaufmann, sempre di più in sella ad
un’ipotetica “graduatoria di tenori”, forse inutile per tutti tranne che per
coloro che a queste cose ci credono veramente.
Kaufmann ha un’adesione quasi inquietante al personaggio di Werther.
Innanzitutto la vocalità, che gli si attaglia come un guanto, e non avrei
mai creduto che il suo vocione espressionista potesse incarnare con tanta
proprietà i dolori del giovane sfortunato protagonista. Sin dal momento in
cui appare in scena e intona il “Je ne sais si je veille” si ha la netta
sensazione di trovarsi di fronte se non ad una rivoluzione copernicana del
ruolo, quanto meno ad un’impostazione ricca di personalità.
Rispetto ad un altro celebrato Werther de tempi recenti – e cioè Marcelo
Alvarez – la prestazione di Kaufmann è molto meno istrionica, meno
esagitata, più introversa, ispirata. L’emissione è governata benissimo da un
controllo del fiato diabolico che gli permette di impostare quelle
meravigliose mezzevoci e smorzature su cui sta costruendo una parte della
sua fama. Che un vocione così scuro possa piegarsi a simili delicatezze, è
qualcosa che può lasciare stupito solo chi non è abituato ad ascoltarlo e
non ne conosce le meraviglie. Da questo punto di vista, il quarto atto non
solo è un capolavoro, ma è probabilmente il più intenso e coinvolgente che
io abbia mai visto o sentito (grazie anche all’apporto non indifferente
della bravissima Sophie Koch), praticamente esalato in un soffio, quello di
un uomo morente che canta con pudore e senza platealità. Una lezione
magistrale di sobrietà e di stile: per trovare un precedente all’altezza di
una simile lezione di canto bisogna risalire probabilmente a George Thill.
Il fraseggio è semplicemente strepitoso: sobrio, composto, mai una
sbracatura veristeggiante, mai uno singhiozzo, mai un urlaccio di dolore. La
recitazione teatrale è la migliore che si possa desiderare: Kaufmann è
completamente padrone della scena e, per di più, con un’ottima intesa con la
Koch, davvero brava.
Complessivamente una gran bella produzione, che merita di essere vista oltre
che ascoltata, anche perché lo spettacolo di Jacquot non brillerà per
particolare fantasia ed originalità, ma è semplice, chiaro, visivamente
molto gradevole, senza problemi. Eccellente – come dicevamo – la Charlotte
di Sophie Koch, di fraseggio vibratile e nervoso e di notevolissima adesione
fisica al personaggio. Ottimo Tezier, uno dei migliori Albert che io
ricordi, capace di dare una bella personalità ad un personaggio tanto odioso
quanto anonimo. Ottimi gli altri ruoli (particolarmente buona la Sophie
della Gillet). E ottima la direzione del veterano Plasson, esperto
conduttore di questo polpettone.
Per coloro che cercano in Werther una palestra di atletismi vocali, questo
non è il protagonista ideale. Di voce Kaufmann ne ha da vendere, ma la
introflette, la usa come mezzo espressivo. Contrariamente a cantanti molto
più estroversi come il già citato Alvarez, uno che i dolori del giovane
Werther preferisce urlarli, Kaufmann punta molto a far percepire allo
spettatore la solitudine, la sofferenza di un diverso. Sin dalla prima
scena, percepiamo alla perfezione il disallineamento del protagonista
rispetto alla realtà ruspante che lo circonda. L’innamoramento per Charlotte
è una conseguenza del riconoscimento in lei di un’altra “diversa”: da qui
accenti sorridenti, affettuosi, prudenti, ricchi di pudore per una felicità
sfiorata per un breve istante. Padrone di tutta questa materia
incandescente, Kaufmann la rielabora rendendola di una modernità
sconcertante: il disallineamento rispetto alla realtà circostante vissuta
come estranea è una delle grandi tematiche dei nostri tempi.
Il punto interessante è che questa non è la prima volta che Kaufmann rivolta
come un calzino le convenzioni legate ad un personaggio, che viene così
trasformato in qualcosa di completamente nuovo: ricordo che fu la sensazione
che provai a Zurigo, nell’Aprile 2009, assistendo a cosa faceva del
personaggio di Mario Cavaradossi che mi sembrava di ascoltare per la prima
volta. E non è un caso se nella problematica “Carmen” della recente
inaugurazione scaligera, l’unico elemento di vera rottura non sia stata la
regia didascalica di Emma Dante, ma proprio lui.
Ce n’è abbastanza – credo – per fare due riflessioni che ci sentiamo di
proporre al nostro pubblico:
1. Non si può oggettivamente rimanere indifferenti di fronte ad un cantante
che si impegna sempre nel cercare di cambiare il percorso interpretativo dei
personaggi che affronta, grazie alle sue doti naturali e all’intelligenza
raffinata dell’interprete di rango. È questo, in buona sostanza, ciò che fa
di lui “il più grande tenore del mondo”, come dicono i critici
2. L’abolizione della brada muscolarità in favore di una fonazione più
raccolta, sfumata, meditata, è qualcosa che cambia definitivamente “l’idea
di tenore”
Era ora che qualcuno ci pensasse |
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