|
|
|
|
|
L'Opera,
Oktober 2010 |
Jorge Binaghi |
Beethoven: Fidelio, Luzern, 12. August 2010
|
Fare il proprio dovere
|
Lucerna: indimenticabile Fidelio con la grande bacchetta di Claudio
Abbado, un favoloso Jonas Kaufmann e una bravissima Nina Stemme |
|
Lo dice Florestan nella sua grande aria del Fidelio ed è la ragione per cui
ancora lotta per vivere, «fare il proprio dovere». In qualche modo,
quest'inaugurazione del Festival d'estate di Lucerna, anche se sotto il
segno di «Eros», era la più perfetta dimostrazione di quanto e come ancora
valga la frase - e l'idea.
A cominciare dallo stesso Beethoven, che
sappiamo quante cure prodigò all'unica sua creatura lirica. A seguire del
Maestro Abbado, il quale, più che «dirigere», «concertava» tutti, solisti,
Coro (l'Arnold Schönberg, preparato dall'ottimo Erwin Ortner) e Orchestre
(quella del Festival e la Mahler Chamber, dire «brillanti» è poco e fuor
viante) con una dovizia di scelte dinamiche che già dalla Sinfonia iniziale
esprimeva tutto e senza bisogno di fracasso.
E quando ci voleva una
trasparenza mozartiana, eccola pronta. Poche volte - se ve ne sono state -
ho assistito a un finale meno «muscoloso» eppure così potente, travolgente
dal fondo, non dalla superficie.
Ma dovessi scegliere un momento in
tutta l'opera, metterei in rilievo le due scene del carcere: la prima con i
prigionieri (dove il coro - e l'orchestra - incominciano quasi sussurrando),
la seconda con l'introduzione e l'aria di Florestan nel secondo atto: mai
sentita quella forza tranquilla, quella non rassegnazione di chi si sa vinto
e sopraffatto, in fine di vita ma che ha dalla sua la ragione, la giustizia,
l'amore (la tensione c'era ma non si gridava - ed ecco il magnifico
«Gott» iniziale emesso da Jonas Kaufmann in un pianissimo che andava
prendendo forza senza mai arrivare al grido; anzi, la frase di cui sopra
«meine Pflicht hab'ich getan» veniva quasi enunciata come la conclusione
logica di un filosofo alla Kant e da lì si andava verso l'anima e l'emozione).
Come nel caso del Coriolano, anche di Beethoven, Claudio Abbado continua a
educarci, a farci capire, a restituire l'autore nel suo contesto e nella
storia della musica. Non è l'unico grande maestro dei nostri giorni, ma è
uno che ti fa sentire che con gente come lui (non dei ma uomini, con i loro
difetti e i loro limiti) questo mondo sarebbe diverso e più giusto. Uno che
fa quel che deve con se stesso e con gli altri (pubblico, autore,
interpreti).
Come dirvi, gentili lettori, che sono certo che non
sentirò più un Fidelio simile nel resto della mia esistenza, come non
l'avevo sentito fino adesso in più di cinquant'anni di frequentazione dei
teatri lirici. E ne sono ben felice. Prima ci sono stati i discorsi di
apertura, di benvenuta e una lunga e sapiente dissertazione di Nike Wagner
sull'Eros nell'opera. Quando dopo quaranta minuti e passa e un intervallo
incominciava la musica, tante cose si capivano. A Tatjana Gürbaca
spettava I'onere di una messinscena per metà. Anche se, con la sua
intelligenza, non ha infierito troppo, non è stata una grande idea
rimaneggiare (e tagliare) i dialoghi con frasi filosofiche un po' (troppo)
scontate e far precedere il tutto da una lettura della lettera (Nina Stemme
avrà pensato che anzichè Leonore doveva interpretare Lady Macbeth) in cui la
protagonista spiega il suo stratagemma (assolutamente prescindibile).
Divise militari (di Stefan Heyne), belle luci (di Reinhard Traub) e un
globo-uovo bianco nel bel mezzo dove si accendevano (come sul podio) le
candeline della speranza (aria di Leonore) e un occhio malevolo vegliava su
Florestan completavano la cornice.
Tra i cantanti spiccavano
i protagonisti. Nina Stemme, alquanto prudente nel primo atto (ma qualche
acuto dell'aria veniva asprigno) dava una lezione di canto e di dizione e si
scatenava nel secondo, con la complicità di un Kaufmann che
meglio di così non l'ho mai visto né udito: due così te li sogni (nel grande
duetto «O namenlose Freude» mi è venuta proprio voglia di pizzicarmi, ma era
chiaro che non sognavo). Ma anche il cattivo Pizarro veniva
presentato alla grande con un Falk Struckmann maturo ma ancora all'apice
della forma, mentre quell'ambiguo (si fa per dire; è «simpatico», perché
vigliacco come tanti di noi) Rocco aveva la voce magnifica (forse ancora
troppo giovane) di Christof Fischesser, sicuramente una grande promessa per
i ruoli di basso.
Peter Mattei incarnava un buon (ma non più di
buono) Don Fernando, e anche Rachel Harnisch era una brava Marzelline tutto
sommato poco brillante. L'unica vera delusione, però, arrivava da Christoph
Strehl, un Jaquino poco udibile e di timbro quasi sempre opaco con qualche
«vuoto» di memoria (magari non era in forma, ma comunque stupisce trovare
questo tenore tra i giovani più quotali). Dei due Prigioneri va rilevato il
primo cantato da Juan Sebastián Acosta. Ma i dettagli non tolgono l'effetto
complessivo di questo grande evento, dove tutti cercavano (e in molti ci
riuscivano pienamente) di Fare il loro dovere. Così va sempre inaugurato un
grande Festival.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|