La
controversa produzione di Tosca di Luc Bondy che apriva la stagione
l'autunno scorso e sostituiva quella di Zeffirelli è stata ripresa a metà
aprile con un cast differente. James Levine e Karita Mattila, che dovevano
partecipare in questa ripresa, hanno dovuto cancellare per indisposizione e
venivano sostituiti da Fabio Luisi e Patricia Racette. Il maestro Luisi
arrivava a
New
York all'ultimo momento e, considerando che saliva sul podio quasi senza
prove, se l'è cavata abbastanza bene. II problema che non risolvesse tutto
adeguata mente era sicuramente dovuto ai tempi che sceglieva, perché
sembrava che non ci fosse un perfetto coordinamento tra orchestra e regia; a
volte pareva che i cantan ti rimanessero immobili senza sapere che fare
aspettando il momento giusto per continuare: quando Angelotti decideva
d'indossare le vesti femminili; quando Cavaradossi arrivava a Palazzo
Farnese; dopo la confessione di
Tosca e durante il duetto dell'ultimo atto.
Sbagliato o no, io
son del parere che il concetto registico originale dovrebbe sempre essere
rispettato, altrimenti la regia si altera. Per quanto spiacevole sia, quella
di Bondy, con tutte le esagerazioni sulla lussuria, la venalità e il sadismo
del barone Scarpia, si svigorisce quando
si
addolcisce la sua brutalità. Già in questa prima ripresa, dopo solo sei
mesi, si eliminava qualche dettaglio. Ad esempio, Scarpia non baciava più la
Madonna alla fine del Te Deum e le prostitute facevano il loro («lavoro» in
modo molto meno esplicito. Seguiranno sicuramente altri dettagli prima della
sostituzione totale di questa produ-zione: l'irriverenza dei Sagrestano, la
mancanza di scrivania nell'ufficio di Scarpia, la cui povera cena era
servita in un semplice vassoio; il comportamento di Tosca, che si sdraiava
pensando tranquillamente sul divano dopo avere ucciso il Barone e dopo avere
contemplato il proprio suicidio.
Patricia Racette,
conmeno risorse vocali e teatrali della Mattila, dimostrava ancora una volta
di essere una cantante molto competente che continua a esplorare parti e
stili diversi con
molta serietà. Il problema era che la voce stessa, un lirico puro di timbro
piacevole ma impersonale e di costituzione poco corposa, non le permetteva
di adire» con intenzione giusta. Ci aspettavamo di più nel «Vissi d'arte»,
cantato con insufficiente espressività e ci aspettavamo di
meno nel Do della (dama», emesso invece brillantemente.
La serata
apparteneva (e come!) ai due maschi, il tenore Jonas Kaufmann e il baritono
Bryn Terfel. Quando si sentono cantanti di livello superiore come questi, la
bruttezza dello spettacolo viene anche perdonata.
Kaufmann è senza
dubbio il tenore del momento. Il suo Cavaradossi era niente meno che ideale,
sia per il «physique du rôle» che per il suo atteggiamento e per il suo
strumento vocale che non solo è di attraente timbro ma che sembra sempre
sotto perfetto controllo. La voce duttile e flessibile gli permetteva di
alternare accenti decisi (forte) e dolci (piano) passando dell'uno all'altro
in forma impercettibile senza rompere la linea di canto. L'acuto era sicuro,
le sfumature ammirevoli, la mezzavoce e il piano perfettamente udibili e di
grande bellezza. L'ovazione dopo le due arie, cantate con molto sentimento,
era lunga e strepitosa.
Lo Scarpia di Terfel
non era meno lodevole. Il cantante sembrava godere interpretando il bigotto
satiro Barone, che non gli offriva nessun problema vocale né di volume (ne
aveva fin troppo) né di tessitura in una parte che sta ben dentro il suo
registro. Nel «Te Deum», cosa rara, la voce di Terfel si sentiva
distintamente e man mano che passava il secondo atto l'espressività, le
inflessioni giuste nel testo cantato e il recitare lo rendevano visibilmente
sempre più violento e odioso. La sua morte sembrava meritata e benvenuta.
Anche lui si meritava l'ovazione finale.
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