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Classic Voice, September 2009 |
PAOLO PATRIZI |
Wagner: Lohengrin,
München, 5. Juli 2010
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Wagner, Lohengrin
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"II pubblico ha accolto Jones con una raffica di 'buu': ma il suo Lohengrin discontinuo e affascinante è uno spettacolo su cui tornare" |
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"Vermisst", scomparso: il disperato appello,
corredato dalla foto in bianco e nero di un bimbetto sorridente, viene
distribuito nell'atrio della Bayerische Staatsoper tra gli sguardi perplessi
del pubblico che affluisce. Quando però, entrando in sala, si ritrova quella
foto ai lati della platea appare chiaro come l'angosciante caso di cronaca
sia solo un gioco teatrale: va in scena Lohengrin, che si apre sulla
sparizione del piccolo Goffredo di Brabante; e quel "chi l'ha visto?" prima
del levarsi di sipario porta subito in medias res. Il sipario, anzi, non si
alza proprio nello spettacolo di Richard Jones, che ci accoglie - all'arrivo
e al rientro da ogni intervallo - con il palcoscenico a vista, mostrando in
progress la costruzione di una casa: dai pochi mattoni prima del preludio
all'edificio completato a inizio terzo atto. Il sogno, molto femminile e
molto borghese, di una casetta con il proprio principe azzurro e i bambini
che verranno (in scena troviamo pure culla e passeggino) è il filo
conduttore di quest'allestimento, con un'Elsa armata di calce e cazzuola: e
la cosa attribuisce una componente attiva a un personaggio considerato tra i
più passivi della storia del melodramma. Il pericolo della forzatura è
dietro l'angolo, anche perché certi momenti di bell'impatto appaiono
incongrui in rapporto alla partitura (il duello del primo atto risolto come
una danza sarà geniale, però la musica suggerirebbe tuttíaltro), e il
pubblico ha accolto Jones con una raffica di "buu": ma il suo Lohengrin
discontinuo e affascinante, con il coraggio - in controtendenza con la
didascalicità delle regie tedesche - di un epilogo aperto (Ortrud impugna
una pistola: per suicidarsi? Per uccidere Elsa o Goffredo?), è uno
spettacolo su cui tornare, che illustra la grandezza del finale così come
l'aveva spiegata Alfredo Oriani in Vortice: "Nessuno muore, eppure è una
tragedia". Il Vorspiel di Nagano parte con violini meno diafani e vibratili
rispetto a quanto era lecito aspettarsi, ma come entrano i fiati la classe e
il dominio tecnico di questo direttore s'impongono, in una lettura che trova
nel gioco delle dialettiche e degli equilibri fonici il proprio magistrale
marchio di fabbrica. Kaufmann e la Harteros sono belli, glamorous e non
inappuntabili: lui ha comunicatività timbrica e scenica, ma non pari dominio
del proprio strumento; lei difetta di quella personalità che giustifichi il
lievito drammaturgico imposto da Jones a Elsa. La coppia cattiva è più
gratificante, con il robusto Telramund di Koch e l'Ortrud sulle difensive,
nello slancio furibondo dell'ultimo atto, ma molto compenetrata della
Schuster. Il migliore, però, è Nikitin: ulteriore testimone di una lex non
scripta che vede nel piccolo ruolo dell'araldo il fiore all'occhiello del
cast di un Lohengrin.
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