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Il Manifesto, 09 dicembre 2009 |
di Gianfranco Capitta |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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«Carmen», cuore del mediterraneo |
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La Scala apre la stagione con uno spettacolo denso e grandioso, grazie alla
direzione musicale di Daniel Barenboim e alla regia di Emma Dante. Che
costruisce un'opera piena di meraviglie in un complesso paesaggio del sud.
Una rivelazione la protagonista, la cantante georgiana Anita
Rachvelishvili, insieme al tenore Jonas Kaufman
A voler comiciare dalla «fine», quei buu buu che rivolti alla regista Emma
Dante cercavano di contrastare il trionfo della Carmen appena andata in
scena, suonavano dolorosamente patetici. Va bene che il loggione ha fatto da
sempre «colore» alla Scala, ma l'altra sera questo suonava particolarmente
amaro, quasi autolesionista, perché sembrava condannare gli autori di quel
dissenso, per altro del tutto lecito, a una nostalgia senza ritorno. O al
fatto che l'opera debba davvero essere condannata, dai tagli governativi
allo spettacolo, a puro reperto residuale, da imbandire «allegramente» solo
nelle case di riposo per artisti del passato. Una sensazione rafforzata, il
giorno dopo, dalle vibranti parole di condanna da parte di Franco
Zeffirelli, appunto. Non a caso, in quelle stesse ore, a protestare con
rumorose «armonie» fuori del teatro, stavano, numerosi e schierati,
orchestrali e maestranze di altri enti lirici, e bersagli privilegiati dei
loro motti erano il ministro Bondi (trattenuto da qualche poetico motivo
lontano dal teatro) e il presidente dei sovrintendenti lirici Marco Tutino.
Erano scatenati i lavoratori dell'opera, quasi più dei «licenziandi»
dell'Alfa di Arese e di Pomigliano d'Arco che pure avevano visto entrare il
loro presidente John John dal collo di cigno (in competizione con un altro
cigno di verde vestito, la sindaca Moratti, che continuava ad applaudire
compunta). Curiosamente, all'ultimo momento è saltato l'annunciato minuto di
silenzio contro i tagli allo spettacolo.
Ma per tornare al palcoscenico, bisogna invece complimentarsi con Emma
Dante, per il grande lavoro compiuto. Grazie a cantanti straordinari nella
voce e nella disponibilità a prestarsi allo spettacolo, e grazie all'intesa
con la direzione musicale di Daniel Barenboim, l'artista siciliana si porta
con sé trenta attori di sua fiducia, e costruisce un grande spettacolo.
Pieno di fascino ma anche di senso, di meraviglie narrative ma anche di
squarci sconvolgenti che riguardano oggi noi: il pubblico dei fortunati
presenti in sala, ma ancor più un paese dai ruoli incerti e dalle sicurezze
pressoché nulle. Perché Emma Dante, lavorando sull'idea molto semplice di
chi fosse il destinatario oggi di quella che Peter Brook definì «la tragedie
de Carmen», ha smorzato la cartolina illustrata disegnata da Bizet per il
pubblico del secondo impero e dell'Opéra comique. Via mantille e ventagli,
nacchere e rose tra le labbra. Se come ha giustamente affermato Barenboim,
la Habanera viene dall'Avana, ci sono i Caraibi, e quindi l'Africa, alle
spalle di quella spagnoleria della vulgata «colonialista» di Bizet.
Ecco allora che quella Andalusia di maniera, diventa senza traumi il sud del
mondo, il cui epicentro culturale può stare in Sicilia come in Sardegna. E
lo spettacolo denso e grandioso della Scala sembra quasi la visione in 70 mm
ma intima del Pensiero meridiano del filosofo Cassano.
Quella donna fatale, che dall'opera al cinema (e perfino alla pubblicità del
caffè) è sempre stata un modello di perversa seduzione che nel suo stesso
compimento aveva premio e conclusione, qui sembra indicare anche altro.
Perché non è più sola a scontrarsi e combattere con la vanità maschile, ma
ha un mondo, dietro e attorno a sé, che si scontra con altri mondi, e
pregiudizi e poteri e delitti, non meno pugnaci e violenti. Insomma Carmen,
la bella Carmen di Anita Rachvelishvili, dalla bellissima voce e dalla gamba
pronta a competere con le danzatrici intorno, scopre alla Scala stavolta,
oltre alla passionalità, una sorta di «progetto», una lucida comprensione
del mondo intorno, delle sue gerarchie e di come aggirarle, se non
rovesciarle.
Il paesaggio di questa Carmen è appunto un sud composito e complesso, che
lambisce l'Africa e l'oriente, pur mantenendo un cuore mediterraneo. La
scenografia di Richard Peduzzi, abituato a vivificare i terreni vaghi delle
grandi regie di Chéreau, qui schiera i suoi grandi muri in formazione
successiva, così da dare una profondità «verticale». Tanto che la taverna
tzigana di Lillas Pastia ha il suo accesso attraverso dei montacarichi, così
da rendere il toreador Escamillo (il possente Erwin Schrott) re dell'arena
ma anche della discesa dal cielo in ascensore. Su quella piazza/patria di
Peduzzi dunque, Emma Dante dispone i suoi segni teatrali, i suoi tratti
distintivi, le sue ossessioni. Non tutto ha la medesima coerenza forse (al
di là del gioco possibile per i suoi aficionados per ritrovarne origini e
citazioni), ma l'affresco è grandioso, oltre che dettagliatamente analitico,
di chi quel meridione ha respirato, subito e conosciuto fin da piccolo.
C'è un grande carro devozionale che potrebbe citare santa Rosalia, e ci sono
preti che arrancano dietro alla croce portata dai chierichetti; ci sono
intere torme di infanzia indifesa, che rotolano a terra in mutande, e
virginee bambine che fanno il doppio di Carmen; un enorme turibolo incensa
dal soffitto la scena, e scorrono veloci figure ancestrali e inquietanti che
apparentano la semana santa di Siviglia alla Sartiglia di Oristano; ci sono
donne che partoriscono sulla via e altre che implorano il matrimonio. Come
la Micaela molto contenuta di Adriana Damato, che nella migliore tradizione
della regista scopre reversibile il proprio abito luttuoso in un candido
abito da sposa. E prende spessore, ben più che una evocazione fantasmatica,
la madre di don José che prega che il figlio smetta di peccare seguendo
l'infame Carmen. Una morale arcaica e i suoi precetti gravano come macigni
su tutte quelle creature. L'unica che le infrange è quella Carmen
determinata, vestita solo di abitucci fiorati di metà novecento (anche i
costumi sono opera della regista). L'unico che tra mille contraddizioni
la segue è don José, in assoluto il trionfatore della serata (assieme alla
rivelazione della Carmen georgiana) grazie al tenore Jonas Kaufman, grande
voce capace anche di meravigliosi artifici di sottigliezza.
Al suo personaggio toccherebbe il gesto finale dell'uccisione dell'eroina.
Ma Emma Dante gli toglie anche quel privilegio maschile: è la stessa Carmen
a porgergli il pugnale fatale, dopo che lui ha tentato ripetutamente di
violentarla (e non è abituale vedere all'opera contatti fisici così
ravvicinati). È lei, fino alla fine, a guidare il gioco. Come Emma Dante
che, a fianco e dentro alla lettura solennecepibile di Barenboim, avanza
finalmente una possibilità diversa e contemporanea di sentire un'opera.
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