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La Stampa, 08 dicembre 2009 |
ALBERTO MATTIOLI |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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La Carmen delle donne |
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Alla fine, questa Carmen è terminata come si poteva prevedere o, conoscendo
il pollaio scaligero, temere. Trionfo per Daniel Barenboim, nuova popstar
della musica classica e per l’orchestra che sale in palcoscenico a ricevere
ovazioni e dispensare sorrisi.
Apoteosi per la baby primadonna Anita Rachvelishvili e il tenore risanato
Jonas Kaufmann. Applausi misti a contestazioni per gli altri protagonisti.
Ma è quando compare la regista Emma Dante che parte una gazzarra che alla
Scala non si vedeva da anni: ondate di buuu! e bravaaa! contrapposti, e
contrapposti a lungo, fino allo spolmonamento. Vabbé che il massacro della
Dante era telefonatissimo, ma al momento di scatenarsi il loggione non ha
certo risparmiato il fiato.
Era stato strano anche l’inizio. Il minuto di silenzio «contro la crisi», la
crisi in generale e quella dei teatri d’opera in particolare, il temutissimo
minuto di silenzio di protesta che ha tenuto lontano dalla Scala il ministro
Bondi, nessuno ha capito se sia stato effettivamente osservato. Forse era
quella lunga pausa fra l’ingresso del Presidente Napolitano (assai
applaudito) e Fratelli d’Italia: l’orchestra era in piedi, Barenboim anche,
la platea seduta tranne Marta Marzotto che non trovava la sua poltrona. Boh.
Il primo vero applauso a scena aperta è arrivato soltanto alla «Séguedille»,
cioè a primo atto quasi archiviato. Ma sembrava, prima della buriana
terminale, che la regia della Dante non avesse scioccato nessuno. Certo si è
sentita una plastificata agée esclamare, davanti ai soliti muri scabri e
pauperisti dello scenografo Richard Peduzzi: «Siviglia non è così, ci sono
stata a Pasqua!». Ma si sa che mai come alle prime della Scala è una goduria
origliare e abbandonarsi, come raccomandava Flaubert, «a quell’istinto
depravato che talvolta ci fa infilare il naso sotto le coperte per annusare
l’odore di un peto». Invece chi ha lasciato trillare a lungo il telefonino
sull’arcidivinissimo si bemolle pianissimo di Kaufmann nella romanza del
fiore è un pirla e basta.
Però, alla fin fine, questa Carmen è un bel segnale, nei nostri tempi cupi
di crisi. Perché è la prima delle donne: e si sa che sono sempre le donne
che, quando il gioco si fa duro, giocano più duro di tutti. Così, questa
verrà ricordata come la Carmen dei destini incrociati di due ragazze che la
sorte ha riunito alla Scala dai loro diversi Sud: una è un’immigrata
extracomunitaria (regolare), l’altra una meridionale che più meridionale non
si può. Protagonista numero uno, la Carmencita venuta dal freddo: l’Anita
Vattelapesca, una ragazzotta georgiana di 25 anni, praticamente debuttante,
senza sex appeal (in un’epoca di primedonne più glam delle modelle e più
verticali delle veline) ma con una gran voce e dei nervi a prova di bomba.
In tre ore, si giocava la vita ed è entrata sicura, impavida e
tranquillissima come se andasse a fare la spesa. Sarà retorico, sarà banale,
ma davvero se da giovane hai visto la guerra e vissuto la povertà sei
corazzato contro tutto. E non ti spaventa nemmeno una prima della Scala, con
il mondo appeso alla tua gola, quando basta un filo di catarro o un
nanosecondo di distrazione perché il sogno diventi un incubo (è assurdo,
d’accordo, ma l’opera è fatta così: e ci piace anche per questo). Altro che
la «serenità africana» di cui scriveva Nietzsche: questa è la Carmen della
serenità georgiana. L’altra protagonista, ovviamente, è la siculissima
Dante: purtroppo lo stato dell’opera oggi in Italia è tale che avere delle
idee e sapere come realizzarle è considerato eversivo (e non solo all’opera,
dirà qualcuno).
Emma si è beccata i suoi fischi abbracciata a superDaniel, il quale l’ha poi
confortata così: «Io vengo dal Paese dei profeti e garantisco che questa
Carmen diventerà leggenda». E lei, la superfischiata? Quasi sprezzante:
«Sarà un problema di digestione. Avranno mangiato prima di venire a teatro,
io consiglio sempre di farlo dopo». Sono toste, queste ragazze dell’opera.
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