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Il Giornale, 08 dicembre 2009 |
di Giovanni Gavazzeni |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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La regista inventa uno stupro e Carmen diventa
anticlericale |
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Nel dialetto palermitano vucciria, il mercato che tutti ormai conoscono per
dipinto di Renato Guttuso, deriva dal francese boucherie. La regista Emma
Dante, anch’essa palermitana, ha voluto impostare in un imprecisato «sud
dell’anima» la Carmen che Georges Bizet fa trasudare di Francia e Spagna da
tutte le note. Per essere coerente con i suoi precedenti teatrali la
protagonista dell’opera che inaugura la stagione 2009-10 della Scala, è una
pulla (traduzione per i continentali: signora di non irreprensibili costumi
e per maggiore comodità del pubblico di Sant’Ambrogio quella che Carlo Porta
avrebbe chiamato putanna). Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Le
attitudini di Carmen sono ben note fin dalla sua comparsa sulle scene di
Parigi, il 3 marzo 1875. Come ci informa Hervé Lacombe, biografo
puntualissimo di Bizet, Carmen lascia una traccia di zolfo nella stampa.
Fioccano appellativi come zingara infernale, Mefistofele femmina, Mignon
pervertita, Messalina di basso rango, virago dalla toilette lercia e dai
canti osceni. Questa la reazione di molti critici davanti al realismo che
per la prima volta entrava all’Opéra-Comique, dove il pubblico era abituato
alla Spagna domestica e pittoresca delle opere di Daniel Auber. Allora aveva
proprio ragione Jean Cocteau che definiva i francesi «italiani senza
sorriso». Per i palati evoluti d’oggi la signora regista, anche costumista,
con l’ausilio delle scene insignificanti di Richard Peduzzi, ci ha
presentato una piazza meridionale. Edifici stilizzati con mattoni a vista,
comparse e coristi trasformati in comari e braccianti di cui è stracolma
tanta narrativa. Passa la statua di una santuzza che dà l’idea del tabbutu,
la cassa da morto con esplicita allusione funebre - che apre e chiude
l’opera. C’è una prena, scossa dalle doglie, che quasi sgrava in scena; un
quartetto di vecchie addette allo strepitu, il compianto «presente salma»
(ma i maschissimi siculi usano il «ventaglio»?). È solo questa l’allusione
al Mediterraneo di cui parla Nietzsche? La signora Dante ci informa che
Carmen è una storia popolare di «operaie, militari e ragazzini con le pezze
al culo» (così nelle note di regia intitolate «Carmen senza vergogna»). Ma
le cose si imbrogliano con l’arrivo dei dragoni (abbigliati con un tocco che
va da Göring a Brecht) per il cambio della guardia. «Durante la marcia i
militari si tengono aggrappato il proprio doppio rimasto bambino», sempre
per citare il contributo fornitoci dalla regista. Si gettano a terra e i
bimbi guizzano fuori in slip per simboleggiare il passaggio all’età adulta.
Ancora più significante l’ingresso delle sigaraie, vestite da monache (sono
prigioniere all’ora d’aria?). Quanto sopra sempre nelle dichiarazioni
anticipatrici della regista per scolorire il presunto bozzettismo originale.
Ma a parer nostro le innovazioni proposte più che scolorire, confondono lo
spettatore neofita e anche quello di tradizione. Ci siamo limitati, per dare
solo un’idea di ciò che abbiamo visto, alle impressioni in noi destate dal
primo atto.
E ora la musica. Daniel Barenboim possiede quella straordinaria natura
musicale che tutti conosciamo e che ha affascinato alla tastiera del
pianoforte e in un secondo tempo dal podio dell’orchestra. È un virtuoso
puro che stupisce ma non coinvolge, ne è un esempio la pubblicizzata
querelle fra il maestro e la regista in ordine all’espulsione dal
palcoscenico delle nacchere, che la Dante ha fatto trasferire in orchestra.
A parer nostro, l’aspetto negativo di quanto sopra si è avvertito
soprattutto nella dilatazione dei tempi nei brani solistici e in alcuni non
opportuni compiacimenti per sottolineare le meraviglie melodiche e
strumentali di Bizet. La preparazione del coro da parte dell’ottimo maestro
Bruno Casoni e i cantanti-attori sono la parte che a noi è giunta più
gradita.
Ripetiamo il nostro accordo sul giudizio espresso dal maestro Barenboim in
ordine al talento della giovane protagonista Anita Rachvelishvili, una voce
sana e solida. Jonas Kaufman (José), convalescente o no, si è confermato
cantante di alto rango. Al timbro brunito e drammatico unisce un’educazione
musicale di squisito liederista. Una sola parola: fuoriclasse. Erwin
Schrott (Escamillo), per chi ha avuto la pazienza di leggerci dobbiamo
ripetere, è quanto di meglio oggi si possa immaginare per un ruolo
notoriamente scomodo e quasi mai vocalmente risolto. Il ruolo di Micaela per
tradizione è quello che ha più presa sul pubblico per la bellezza della
musica scritta per lei da Bizet. Purtroppo la signora Adriana Damato si è
trovata a confliggere con un’antagonista quale la Rachvelishvili che le ha
sminuito il consenso del pubblico. A sua discolpa vogliamo invocare le
attenuanti generiche vista l’incombenza clericale inflittale
dall’impostazione registica che la perseguitava con crocifissi, diaconi e
preti. I ruoli dei cosiddetti comprimari, che in Carmen hanno grande
importanza, sono stati sostenuti con impegno e professionalità da Michèle
Losier (Frasquita), Adriana Kucerová (Mercédès), Francis Dudziak (Dancairo),
Rodolphe Briand (Remendado) e Gabor Bretz (Zuniga).
Il formidabile duetto finale con l’uccisione di Carmen ci ha riservato una
sorpresa (che sorpresa non era viste le abbondanti anticipazioni di stampa):
Don José stupra Carmen. Signora regista, almeno di questo particolare
tristemente frequente nelle cronache dei nostri tempi non sentivamo proprio
il bisogno. Al glorioso teatro d’opera servono idee, non effetti. Per
favore. Quanto sopra attiene allo spettacolo. Per la Rachvelishvili e
Kaufman un trionfo; per la Dante un’ondata di dissensi.
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