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La Stampa, 09-10-2002 |
GALLARATI PAOLO |
Strauss: Capriccio, Torino, 08/10/2002
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L'OPERA DI STRAUSS HA APERTO CON SUCCESSO IERI SERA LA
STAGIONE DEL TEATRO REGIO
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Non e' solo un «Capriccio» Geniale
riflessione su musica e parola |
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CAPRICCIO», ultimo lavoro teatrale di Richard
Strauss, non e' un'opera ma una «conversazione per musica». Ci vuole quindi
del coraggio a piazzarla, come ha fatto il Regio, come apertura di stagione,
quando il pubblico si attende, solitamente, festa e pompa. Ma il teatro
sapeva di poter contare su due pilastri solidissimi: il direttore Jeffrey
Tate e il regista Jonathan Miller, coadiuvato da Peter Davison (scene) e Sue
Willmington (costumi). Tate rende scorrevolissima la conversazione
«straussiana» che mette in scena sei personaggi mentre, in un castello
parigino del '700, dibattono i problemi dell'opera in musica, incentrati sul
dilemma se la poesia sia piu' importante, nobile, espressiva della musica o
viceversa. L'argomento, rigorosamente «tecnico», pare quello di un seminario
universitario condotto da sei allievi brillanti, eppure Strauss ne fa un
capolavoro, con sorprese musicali a getto continuo che il direttore
d'orchestra esalta nelle sue tre componenti fondamentali, che sono poi
quelle di tutto il teatro di Strauss, a partire dal «Cavaliere della Rosa»:
la scioltezza della commedia con personaggi plastici e ben rilevati; il
lirismo che ne squarcia il tessuto con oasi di incanto e commozione; il
ripensamento storico degli stili musicali del passato (Gluck, Rameau, il
Settecento in generale e Strauss stesso che rivive se stesso in un
nostalgico sguardo retrospettivo). Al centro di tutto sta la Contessa,
personaggio radioso. E' lei che, nella scena VI, ammirando lo splendore di
un sonetto appena intonato, afferma che poesia e musica sono in realta'
l'una nell'altra perche' «La musica desta sentimenti che premono verso la
parola e nella parola vive un'anelito che tende verso il suono e la musica».
Sara' dunque solo un divertimento sui problemi teorici dell'opera, questo
brillante «Capriccio»? O non sara' piuttosto la meditazione di un genio su
quello che, da Gluck in poi, ha costituito il tema centrale della musica
tedesca, vale a dire la compenetrazione, fecondazione, generazione reciproca
di suono e parola,musica e poesia? E' facile e giusto collegare la
composizione di «Capriccio», musicato nel 1942, con la guerra che divampava:
ma non come fa il regista Jonathan Miller, (fortunatamente solo a parole)
per guardare con ironia il musicista che si ritrae dall'orrore circostante e
si chiude nel proprio studio a scrivere musica su di un argomento cosi'
inattuale. In realta', la composizione di «Capriccio» non e' una facile
evasione ma e' la meditazione commossa di un enigma quanto mai attuale nel
contesto della barbarie scatenata: quello dell'anima tedesca e della sua
musicale vocazione al sublime. E, nelle lunghezze di «Capriccio» che perde
mordente nell'ultima mezz'ora ma vola di nuovo alto, alla fine, nel luminoso
monologo della Contessa, traspare quasi la volonta' del compositore di
trattenere un'incanto, come per prolungare l'abbraccio con la Musica, prima
di alzarsi dallo scrittoio e uscire fuori a vedere il disastro. Quel
disastro cui efficacemente accenna la regia spigliata, naturale e per nulla
dissacrante di Jonathan Miller: all'inizio, sullo sfondo di rovine fumanti,
passano personaggi col saluto nazista; poi, la paratia metallica si chiude e
la conversazione, allietata da danze e dalla esibizione dei cantanti
italiani, si svolge in abiti settecenteschi. Solo alla fine, quando la
Contessa si congeda, in abito da sera, con il suo trasognato addio, la
parete di riapre sui fuochi delle bombe che precipitano dal cielo. Un rombo,
dopo l'ultimo accordo, accompagna il sipario. Il direttore guida con
sovrana maestria una compagnia di canto senza punte eccelse, ma omogenea,
specie nel settore maschile: JONAS KAUFMANN e' un delizioso
tenore-compositore, Claudio Otelli uno spigliato baritono poeta, Franz
Hawlata, basso, impersona con corposita' tutta straussiana un direttore di
teatro pratico, sicuro di se. Ottimo il Conte di Olaf Bar e piuttosto
autorevole Doris Soffel nei panni dell'attrice Clairon. Dalle melodie della
Contessa dovrebbero piovere fiotti di luce, sempre raggiunti: il soprano
Elisabeth Whitehouse ha usato molto stile per sostenere la tensione lirica
della parte, anche se proprio lei rappresenta, a mio parere, il punto piu'
debole della compagnia. Per il cantante e la cantante italiana (Valery
Serkin e Lillian Watson) ci vorrebbero delle voci piu' belle: purtroppo
Strauss e' cosi', esige il lusso e lo spreco di mezzi, anche in parti
minime. Nell'insieme, comunque, il risultato e' apprezzabilissimo. |
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