Installatosi sulla poltrona lasciata libera da Gérard Mortier, Nicolas
Joel fece subito capire quanto all'indietro, sia per ciò che riguarda i
titoli sia ancor più per il modo di portarli in scena, avrebbe
riposizionato la "sua" Opéra. Inaugurazione della prima stagione con
Mireille; a seguire, Andrea Chénier (due titoli che Mortier piuttosto
sul suo cadavere); poi, archiviazione del Werther di Jürgen Rose che era
brutto ma aveva appena un anno di vita, e importazione dal Covent Garden
di questo che non solo è molto più brutto esteticamente, ma oltremodo
irritante perché sulla sua congenita, decrepita vecchiaia viene
iniettato un botox di finta modernità che non la ringiovanisce punto ma
anzi la rende ancor più sgradevole. Quel moderno à la page del
palcoscenico vuoto (ma che usa anche la sala: il duetto del chiaro di
luna principia senza nessuna ragione nei corridoi laterali, poi i due
aprono una porticina, spariscono e ricompaiono in palcoscenico: quel
frisson!) che i registi veri impiegano per riempirlo coi personaggi e
Jacquot, regista come potrebbe esserlo un Pier'Alli qualunque, ci piazza
invece manichini che portano a spasso non dei costumi ma dei vestiti: e
allora, un po' di verzura o di suppellettili distrarrebbero quantomeno
lo sguardo, ogni tanto. Per giunta, in video le cose peggiorano giacché
Jacquot si piazza anche dietro le telecamere, con lo stesso spirito che
animava la sua orrenda Tosca con la supercoppia non ancora scoppiata
Gheorghiu-Alagna: si vedono i personaggi in quinta che passeggiano,
fanno segni scaramantici, salutano con la manina, si stirano le vertebre
del collo, cose così che indubbiamente molto ci dicono in merito ai
personaggi. Una schifezza: punto.
Poi c'è la direzione. Joel - ex
sovrintendente del Capitole di Toulouse - l'affida a Plasson, ex
direttore musicale tolosano in avanzato viaggio verso le ottanta
primavere, che approda così per la prima volta alla Bastille, tornando a
Parigi dopo un Montségur di Marcel Landowski all'Opéra Garnier nel
lontano 1987. Plasson il Werther lo conosce anche capovolto, e non si
può certo dire lo diriga male. Ma lo dirige come Antonino Votto dirigeva
Verdi: nei secoli fedele come l'Arma, sempre uguale, sempre un po' più
pesante dell'ultima volta, solfeggio impeccabile, metronomo in gloria e
fantasia zero al quoto.
Però c'è il cast. Che, come accadeva
cinquant'anni fa ma con mezzi e significati assolutamente di oggi,
assorbe su di sé l'intera serata. A cominciare dal protagonista. Jonas
Kaufmann è tra i capofila di quel gruppo di cantanti moderni che pian
piano stanno trasformando (anzi, altrove ormai l'hanno già trasformato)
il modo d'essere del teatro musicale: tecniche alquanto individuali,
plasmate sulle proprie caratteristiche fisiologiche onde sfruttarle al
massimo ai fini espressivi che diventano la ragion d'essere del loro
stare in scena, facendo blocco con un linguaggio gestuale che annulla
ogni residua differenza tra teatro musicale e di parola. Dunque,
irreprensibile vocalmente, al modo d'un Kraus tanto per dire, il Werther
di Kaufmann non è: diverse note non galleggiano sul fiato ma ricevono
irrituali spinte di gola, e diversi pianissimi si posizionano
sull'incerto confine col falsetto, cosa che dà ai nervi -
comprensibilmente, in sede teorica - ai puristi a oltranza. Il fatto è
che il luogo dove crescono i puristi non è il teatro bensì quel muro del
pianto che circonda il cimitero degli elefanti canori: su cui poggiare
il fonografo a tromba onde perseverare nella celebrazione acritica del
passato che, come ognun sa, è sempre, sempre, "a prescindere" migliore
del presente. Invece, questi artisti moderni di cui Kaufmann fa parte
(citando un po' nel mucchio sempre in crescita, gli altri si chiamano
Dessay, Bartoli, Keenlyside, Terfel, Netrebko, Michael, Denoke, Meier,
Stemme e via elencando) è soprattutto al teatro che badano.
Sicché il suo Werther, Kaufmann lo costruisce dando significato tutto
particolare alle lacrime che del personaggio sono la cifra: mai
esteriori e nemmeno "furtive", di quelle con la smorzatura sottoli neata
quinci e quivi, tutto buone maniere e sospiri delicati. Piut tosto,
sono le Gefrorene Tränen, lacrime ghiacciate, versate dal romantico
Viandante durante il Viaggio d'inverno di Schubert: un diverso che si
pone o è stato posto al di fuori della società, che soffre in una
solitudine rocciosa, introversa, di tanto più lancinante in quanto per
un fulmineo istante ha conosciuto il sorriso e la speranza. Quella sua
voce grande, scurissima (molto adatta quindi alla scrittura di Werther,
non per caso adattata da Massenet con minimi tocchi a una tessitura
baritonale), che si piega a fredde sfumature impalpabili che paiono
sospese sulle distese nebbiose dipinte da Friedrich, e subito dopo
s'espandono in abbandoni cui la incisiva timbratura manda a mille la
sensualità. Voce che cesella la parola dandole inflessioni e colori
sempre diversi, sempre nitidi, sempre appropriati a definire una
ulteriore tappa d'un percorso psicologico di evidenza e logica teatrale
rabbrividenti. Capace di liberare ondate rapinosamente passionali che
subito s'increspano di spume melanconiche nient'affatto stilizzate in
quello stile nobile caro agli interpreti d'antan, bensì disperate: e in
misura direttamente proporzionale all'assoluta assenza d'ogni scomposto
birignao (un ultimo atto, al riguardo, tutto sul filo d'un sospiro,
tutto un "cosa avrebbe potuto essere" nient'affatto goethianamente
metafisico ma al contrario carnalissimo). Aggiungiamoci una presenza
scenica di magnetismo unico, quello "stare là" sufficiente di per sé a
definire personaggio e situazione anche senza la gestualità, peraltro
convincente persino in una totale non-regia come questa: se questo è
stato il debutto nel ruolo, c'è da chiedersi cosa potrebbe diventare con
alle spalle un regista vero e un direttore dotato di fantasia oltre che
metronomo; ma per intanto, meno male che il video c'è.
Fortunatamente, poi, non abbiamo un one-man-show bensì un cast di rara
omogeneità. Sophie Koch bada anche lei a esprimere anziché a mettere
note in vetrina, quantunque siano tutt'altro che brutte; ha lineamenti
personali e marcati, il che è meglio d'essere solo carina; sfuma,
colora, bada alla parola in ottima sintonia con Kaufmann; in scena, è
attrice modernissima. Eccellente Charlotte, in definitiva, soccorsa
inoltre da ottimo francese. Ludovic Tézier (che ha cantato anche Werther
nella versione Battistini) è l'Albert migliore che si possa oggi
ipotizzare. E persino quell'insopportabile caramellaia di Sophie, alla
quale ovviamente Jacquot nulla fa per dare un qualche spessore,
Anne-Catherine Gillet, petulando al minimo sindacale, riesce a renderla
meno scema del solito.
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