Tradizione e innovazione convivono in questa edizione del Werther, a dir
poco eccezionale. È un giudizio che riguarda lo spettacolo nel suo
complesso senza che si possa separare la musica dal teatro e, per essere
ancora più chiari, lo spettacolo stesso dalla sua trasposizione video.
La regia viedo, modellata dalle stesse mani che hanno confezionato
quella teatrale, produce qualcosa di nuovo e diverso che mette ancor più
in rilievo l'abilità degli interpreti, la loro adesione all'opera di
Massenet e a questa lettura. Il risultato è un film appassionante che
trascende quanto si poteva vedere in teatro. I colori dell'alta
definizione, i primi piani dei volti, le riprese dall'alto verso il
basso nel momento più convulso del III atto, le rapide inquadrature
dietro le quinte, le angolature inedite, sono elementi essenziali per la
riuscita. Nessun compositore dell'Ottocento avrebbe mai potuto
immaginare una cosa simile.
L'allestimento è tradizionale e al
tempo stesso stilizzato. È un Settecento sobrio e severo che sa aprirsi
alle passione del pre-romanticismo. Le scene sono ampie e spaziose, ma
essenziali nel tratto con un che di metafisico. Per esempio nel I atto,
quel cielo azzurro nel quale si campisce il grande portone produce un
effetto non illustrativo, ma straniante, come a suggerire un eden
borghese che presto verrà distrutto da Werther. Per esempio la scena del
III atto: un interno spoglio metafora discreta e raffinata di una casa
senza amore, come quella abitata da Albert e Charlotte.
Le luci
completano l'effetto, mentre i costumi aiutano gli artisti a ricreare il
personaggio. Ognuno vi si cala con credibilità e naturalezza. Non si
tratta solo di possedere il physique du rôle che rispetti lo status e
l'età di Werther, Charlotte, Sophie e Albert. È la capacità di piegare
il volto, i gesti, le espressioni alle necessità del dramma con esiti
sempre eccellenti per tutti e straordinari in Jonas Kaufmann.
Kaufmann peraltro deve essere considerato Werther di levatura storica,
il primo che nel dopoguerra riesca a dare continuità al filone più
autentico degli interpreti di quest'opera. Werther ebbe come primo
interprete Ernest van Dyck, un cantante francofono che salì con successo
la sacra collina di Bayreuth, chiamato da Cosima stessa. Tenore robusto
insomma, come fu poi Georges Thill, che non disdegnò i ruoli wagneriani.
Accanto a questo filone, emerse presto una seconda linea, più lirica
e sospirosa che trovò mirabile accoglienza in alcuni grandi tenori
latini, come Schipa, Valletti, Tagliavini e Kraus. Ma la vera natura di
Werther rivela la sua compiuta espressione solo con voci che possano
reggere alla pari il denso strumentale di Massenet, fare emergere
interamente la vocalità del protagonista, dare alle sue sofferenze uno
slancio più virile e più intenso.
In questa direzione si
comprende l'accostamento di Corelli a Werther. Ma a Corelli mancavano
alcune risorse che Kaufmann possiede e che ne fanno il più completo
interprete di quest'opera assieme a Thill. Intanto Kaufmann canta in
ottimo francese, con giusto rispetto della dizione e della prosodia, con
un gusto della parola che solo un liederista della sua caratura può
avere. Poi conosce lo stile: libero da portamenti che, già discutibili
nell'opera italiana, qui devono essere banditi. Kaufmann però ha dentro
la sorgiva schiettezza di un tenore italiano. Non a caso ha sottolineato
in numerose interviste l'importanza della voce e del canto e ha indicato
in Corelli un modello. Che segue, ma non imita. Ne coglie la lezione, ma
ne evita i difetti. Ne rielabora gli insegnamenti all'interno con la sua
personalità fortissima e spiccata di artista di razza. In più ci unisce
il fascino di quella sua voce così particolare: voce di tenore, ma con
un retrogusto baritonale, ma di una grana del tutto particolare. Non
scura, non fosca, ma come velata, con una patina che aggiunge una sorta
di emaciato sfinimento al personaggio e ne esalta l'abbandono poetico,
l'ardente sentire, quell'essere votato all'infelicità e alla morte.
Aggiungete l'eccellente tecnica che lo fa robusto nei centri, ma
elastico nell'acuto (e qui la tessitura lo aiuta) con in più l'arte
della mezzavoce, del piano, del canto sfumato, della ricerca di spessori
sempre diversi che passano da una declamazione quasi wagneriana ai più
teneri trasalimenti. E questi ultimi sono resi senza smancerie, senza
zuccheri filati, senza brillantine da tangueri. Kaufmann si fa guidare
da un gusto sicuro e da un temperamento dove il tenore non prevale mai
sull'artista. Un artista che vive il dramma e non lo usa per esibirsi.
Sempre dentro la musica.
Siamo in presenza di Werther in persona
e di un Werther che manda a casa tutti gli altri rivali. Vince su
Alagna, perché la sua preparazione è di gran lunga superiore. Vince su
Alvarez per l'approfondimento dello stile, per la corrispondenza al
personaggio. Vince su Vargas per la maggior completezza. Vince su Meli
per la più acuta adesione al mondo dell'opera francese. È più francese
dei tenori francesi, senza i loro limiti e senza i loro vezzi. Inutile
fare l'elenco dei momenti coinvolgenti. Ovviamente la Parabola del
figliol prodigo. Ovviamente le Strofe dell'Ossian e il successivo
Duetto. Ma soprattutto la morte vissuta parola per parola con una
credibilità scenico vocale sconvolgente. Si potrebbe concludere qui,
osservando che il resto è un felice contorno. Ma non sarebbe vero né
corretto. Sophie Koch ha le carte in regola per essere una magnifica
Charlotte. Intanto la voce è giusta per fare il personaggio nello stile
francese, senza cioè quell'eccesso di punta che le italiane o le
italianeggianti ci mettono, specie se mezzosoprani. È una caratteristica
che rende Charlotte giovane come dev'essere. Ma la Koch è capace anche
di un fraseggio giudizioso e coraggioso, di un accento intenso, di una
declamazione impetuosa, chiamata a siglare i momenti cruciali
dell'azione.
Non è un caso che la Koch e Kaufmann emergano non
solo nell'incontro del III atto, ma soprattutto in quel IV atto che, se
non ben interpretato, può ingenerare noia. La Koch sa dire la frase e la
sa vivere senza retorica e senza improvvisazione.
Non è da meno
Ludovic Tézier, un Albert severo, ma non sinistro che canta con pienezza
di voce. Ha timbro che si addice all'uomo maturo. Lo sposa al gesto
commisurato a una virilità pensosa ben diversa dalla giovanile
esuberanza di Werther. Ha un'espressione compresa nel ruolo e nelle
responsabilità di chi ha un peso nella società a differenza dell'amico
che ne è estraneo. Due anni separano Albert, venticinquenne, da
Werther. Ma sono un abisso. Werther è eternamente adolescente. L'altro è
un giovane già maturo. Tutto questa appare con immediatezza ed è un
valore aggiunto alla lezione di Tézier e di Kaufmann.
Gli altri
sono un' ottima cornice. Ma Plasson con buona pace di certa critica
italiana, che non lo ama, è l'anima dei quadro, è l'artefice
dell'esecuzione, è l'interprete ideale della partitura. Ne coglie
l'essenza, non si vergogna di nulla, vale a dire che non trascura le
scene festose, un poco ingenue. Werther è l'opera di Massenet: un lavoro
autonomo rispetto al romanzo di Goethe. Ne vive il dramma con schietta
adesione, ma non confonde il realismo appassionato di Werther con il
Verismo. Esalta le pennellate dense e soavi dell'orchestra. Le sposa con
le scene di questo allestimento. Disegna con mano leggera l'ordito
armonico che sostiene la prosodia del canto e fa uscire allo scoperto la
modellatura tutta particolare della frase. Insegue le cellule tematiche
e le accompagna ad ogni loro comparsa. Fa, come scrive Tubeuf, di
quest'opera il requiem di un poeta. Lo fo con tutta la discrezione che
la musica di Massenet richiede.
Note di copertina di alto
livello. Grafica di prestigio. Ripresa in alta definizione e
registrazione sono un capolavoro. Un altro miracolo della Decca.
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