Personalità. È soprattutto questo (data ovviamente per assodata
la tecnica posta a regolare la linea vocale), a far sì che
un'esecuzione s'imprima nella memoria. Un timbro personale e
dunque subito riconoscibile gioca ruolo importante, ma
secondario rispetto al come lo si usa in faccende quali pulsione
dinamica, spessori, inflessioni che in una frase enucleino la
parola o addirittura il fonema che si ritengono i più
significativi: e far capire pure il perché. Ed è quindi questo
che fa di Kaufmann il tenore migliore del momento.
Più
della brunitura pur tanto fascinosa del timbro, della robustezza
e ampiezza della linea, dello squillo non argentino bensì
bronzeo e dunque forse ancor più singolare. È la lancinante
malinconia venata d'incredulità ma avvolta pur sempre in una
carnosa, notturna sensualità data dall'emissione tenuta tutta a
fior di labbro, a rendere l'aria della Miller forse non la
meglio cantata secondo gli schemi più classici in fatto
d'appoggio e proiezione del fiato, ma di certo la più toccante
tra le incisioni moderne. "Celeste Aida" è un capolavoro non per
via dell'estenuato, eterno pianissimo in cui sfuma il si
bemolle, ma perché questo avviene come logica conclusione d'un
continuo altalenare tra maschia incisività e ripiegamento
estatico, che perfettamente definiscono il dipolo espressivo su
cui Verdi costruisce la psicologia di Radames. Sempre il dato
espressivo, dunque (che nasce dal saper cantare, certo: ma è
tecnica sapientemente modulata sulle proprie caratteristiche
fisiologiche), è quanto rende ovunque emozionante questo
recital, sorta di anticipo promettente sulle future scelte
repertoriali di Kaufmann, che molti vorrebbero controcorrente o
addirittura eccentriche, laddove di certo affronterà invece il
grande repertorio tenorile classico: e perché no, se è classico
ci sarà pure una ragione, né si vede motivo valido per farlo
appannaggio delle mezzecalze solo perché già ampiamente
frequentato. Manrico l'ha già cin tasca, e lo canta un gran
bene; Riccardo sarà di sicuro da andare a sentire ovunque lo
faccia; per Adorno, spero farà il recitativo un po' meno
letargico, ma non credo lo frequenterà tanto quanto Alvaro o Don
Carlo, che ricevono entrambi tratti quanto mai suggestivi. E
circa Otello, presto detto. Sentiamo questi "Dio, mi potevi" e
"Niun mi tema", e parliamone: nessun dubbio sarà lui, il Moro
dei prossimi vent'anni.
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