Musica, settembre 2013
Maurizio Modugno
 
Wagner- Der Ring des Nibelungen
 
Eccolo l'atteso nuovo Ring des Nibelungen del Metropolitan. Contestato, acclamato, discusso, discutibile certo, eppure prodotto musical-mediatico di tal impatto che non potrà d'ora in poi non spiccare nella storia della messa in scena wagneriana. Tutto è partito, alcuni anni fa, da un'idea ambiziosa del genera! manager del Met, Peter Gelb: un Ring nuovo, latore di proposte ancor più ardite di quelle di Svoboda o della Fura dels Baus, l'unione della migliore tecnologia cinematografico-teatrale e del più grande ciclo operistico mai creato. Gelb chiama al Lincoln Center il regista canadese Robert Lepage, che coinvolge nel progetto i suoi collaboratori tecnici e artistici (tra cui IO scenografo Carl Fillion), videomakers, creatori di effetti visivi, persino alcuni produttori del Cirque du Soleil (per cui Lepage ha firmato due spettacoli), per un allestimento tutto all'insegna del kolossal e dell'effetto speciale. Va in gestazione quella che sarà la protagonista incontrastata della scena, l'enorme macchina pensata da Fillion per l'intero Ring, un' opera — modernissima e barocca insieme —d'ingegneria meccanica, fatta di quarantacinque assi di nove metri ciascuna, in fibra di vetro ricoperte di alluminio, mobili autonomamente l'una dall'altra, capaci di sollevarsi e ruotare a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando ora la spina dorsale di un drago ora una montagna ora i cavalli delle walkirie ora un'architettura di scena. I cambi avvengono con intervalli anche fulminei e sono controllati in parte a mano, in parte da un computer. La si battezza subito come «Walhalla machine ». Sulla superficie di queste assi, quasi tasti d'un gigantesco pianoforte scenico, vengono proiettate in videomapping le immagini di Boris Firquet, Pedro Pires e Lionel Amauld, a mostrare alberi, caverne, rocce, acque e fiumi, cielo e fuoco, composte o scomposte a volontà. La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tal peso (quarantacinque tonnellate) che il Metropolitan ha dovuto rinforzare il palcoscenico (per evitare danni alla struttura simili a quelli prodottisi nel 1966 con l'Anthony and Cleopatra di Barber, nell'allestimento monstre di Zeffirelli). I giornali parleranno, dopo le prime giornate del ciclo, di « un'affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica », di allestimento « tradizionale e rivoluzionario », ma anche di una produzione « troppo simile a un musical di Broadway », mentre il « New York Times » intitolerà la sua aspra recensione: « Ring V/s Spiderman ». La produzione comunque è destinata a rimanere negli annali anche per essere uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (sedici milioni di dollari).

Ciò che non sembra aver preoccupato più di tanto Gelb, che ha venduto l'esclusiva della diretta ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi. E l'edizione video HD alla DG, che ne ha realizzato otto DVD in Blu-ray, unendovi un documentario, « Wagner's Dream », e una ricca serie di extras, per un totale di 1111 minuti. Questa la cronaca dovuta, in termini nulla più che giornalistici. Poi, passata la scalmana dell'evento maiuscolo e del prodotto extralusso, vien da riflettere più a fondo. Certo nessun Ring dev'essere stato spettacolare a tal segno in un teatro. Certo nessun Ring è come questo eccezionale a fruirsi davanti a un impianto video-audio di top class. E certo nessun Ring come questo dà luogo a una serie di rilievi positivi e negativi tanto vistosamente contrastanti fra loro. A cominciare dalla duplice direzione d'orchestra. Sì, perché le prime due giornate (2010 e 2011) portano la firma di James Levine, le altre (2012) di Fabio Luisi. L'uno partecipe dell'evento Ring sin dal concepimento, l'altro poi subentrato tanto sul podio di Siegfried e Götterdämmerung, quanto nella carica di direttore musicale del Met, per la malattia di Jimmy. Il divario fra le due letture è enorme. Levine, maturato non poco dal Ring del 1988-89, propone Das Rheingold e Die Walküre come la straordinaria rivelazione dell'energia vitale del mondo. La musica è un flusso di potenza inaudita, umanità e natura s'esprimono in una sorta di dialettica furibonda, con una volontà continua d'espansione, con il rovello di un eros panico che sembra non mai potersi appagare, con una fatalità non metafisica, ma che sorge con violenza dalla materia, dalla terra e dalla carne. Il suono, denso, avvolgente, dell'orchestra di Levine nel prologo e nella prima giornata del Ring fa storia a sé. Ed è funzione spontanea d'un ritmo narrativo incalzante, quasi un'onda inarrestabile e divorante, pur nella quale il canto e le fisionomie dei personaggi hanno tutto il modo d'affermarsi. Dicendo certo il Wagner meno rituale, meno speculativo, più scopertamente umano, che discografia ricordi. E vorremmo notare, in tal senso, l'acribia con cui Levine afferma Wotan — il Wotan di Terfel — come personaggio cardine e la sottigliezza o la brutalità, la dolcezza o lo sconforto con cui ne riflette in orchestra il canto. E certo, con essa, taluni altri passi salienti, quali la discesa al Nibelheim o l'entrata nel Walhalla (quasi sommessa in confronto a quella di Petrenko!); e la tempesta nera, colossale del Vorspiel al Primo Atto di Die Walküre o soprattutto la sessualità irrefrenabile dei duetti tra Siegmund e Sieglinde.

Fabio Luisi è personalità non certo così individuata: rivela un dominio orchestrale meno magistrale di Levine, una concezione genericamente cupa e drammatica del Ring, ma anche certe banalità nella campitura dei temi guida e nei grandi squarci sinfonici, talora irritanti (una per tutte quella Marcia funebre di Siegfried che incede rigida e priva d'afflato). Migliore il Siegfried e la sottolineatura delle componenti di mezzo carattere che lo innervano; mentre la Götterdämmerung è in continua carenza di coesione e d'ossigeno poetico. Ci sia concesso chiedere, en passant, la logica di un Ring così fortemente dislivellato e senza quell'unità di concezione direttoriale a tal ciclo necessaria ben più che ad ogni altra musica.

I cast vocali radunati sono anch'essi alterni. Dicevamo del Wotan di Bryn Terfel, che è qui la presenza più interessante. Non è quella del bass-baryton gallese una voce pregevole, anzi oggi appare lievemente stimbrata: ma è estesa, salda, capace di grande varietà dinamica e messa al servizio d'una lettura del personaggio nuova e d'una recitazione d'eccezionale livello. Dimenticate gli dei nobili e sublimi di Hotter, Frantz e London: questo Wotan è all'inizio (nel Rheingold) sicuro di sé e del suo fascino, il canto giovane e assetato di vita, la presenza forte d'appeal fisico, in realtà un bastardo » che passa su tutto e su tutti per appagare le sue ambizioni; poi (in Die Walküre) le ombre sembrano accumularsi nella voce, la paternità ferita — Brünnhilde, Siegmund — e il fato stringente vi scavano sfumature e colori; infine (Siegfried) quel suo Wanderer ormai agé par specchiare amaramente in un canto intimo e morbido i commossi viandanti che furono di Schubert e quelli, ancor più angosciati, che saranno di Mahler. Solo alcuni esempi scenici: quel narcisista contemplarsi la mano con l'anello rapito ad Alberich; l'abbraccio, quasi una pietà, con cui stringe il morto Siegmund; quel bacio violento e disperato a Erda, che se ne ritrae disgustata; e lo smarrimento totale allo spezzarsi della lancia sotto il fendente di Nothung. Deborah Voigt non è una Walkiria quale era lecito chiedere al suo fianco: al centro e nei gravi la materia è logora e l'articolazione difficile, mentre gli acuti hanno ancora uno squillo eccezionale. Sì che le pagine da ricordare son giusto quelle dei maggiori slanci vocali, una per tutte il finale del Siegfried. Altrove abbiamo atteso invano le grandi frasi di Brünnhilde cantate e non farfugliate. Rimane però, e memorabile, la scena con Waltraute. Raramente udita a tal livello di furiosa aggressività e di graffiante artiglio verbale e sonoro, grazie anche a una Waltraud Meier più o meno nelle stesse condizioni vocali, ma di scatto travolgente. Quasi scontato dire che Jonas Kaufmann è un Siegmund oggi senza confronti per la cavata stupenda della bruna voce, per la fervida vibrazione degli accenti, non così analitici come un Vickers o un Suthaus, ma tali da dir comunque tutta la virile nobiltà del personaggio. Singolare assai questo Jay Hunter Morris come Siegfried: trovato in fretta da una carriera nell'opera contemporanea americana per sostituire Ben Heppner, texano col physique du rôle certo, impavido su ogni proposta della tessitura, a volte appassionante, ma anche con un timbro vuoto e sgradevole e un tedesco che spesso cade nel ridicolo. Giungeva a sovrastarlo talora il Mi-me ideale di Gerhard Siegel, raffinato in un canto sì aguzzo e schizoide, eppure mai macchiettistico, con l'aggiunta d'una qualità attoriale strepitosa, a richiamare ora Peter Lorre, ora Marty Feldman. Eric Owens è un sonoro, infernale Alberich e Hans-Peter König offre a Fafner, a Hunding e Hagen la sua ben nota, colossale voce di basso profondo, ma anche un temperamento appena indifferente e qualche limite negli acuti. Brave Eva-Maria Westbroek, Sieglinde versione «buona ragazza della porta accanto » e Stephanie Blythe, giustamente definita « duecento chili di bellissima voce », Fricka più suadente che imperiosa. Abile dicitore il Loge di Richard Croft e un po' meno convincenti la Freia e la Gutrune molto lattemiele di Wendy Bryn.. Harmer e il Donner e il Gunther assai stentorei di Iain Paterson.

Detta l'alta qualità di Figlie del Reno e Nome, risponderemo volentieri alla domanda su come sia poi veramente questo Ring di Lepage: se ci si astrae dall'ampio guardaroba di costumi brutti e improbabili a firma di François St-Aubin, è a dir poco affascinante. La serie di coupsde théâtre che la « Walhalla machine » è in grado di generare è pressoché infinita, diventando essa stessa elemento drammaturgia) primario, forse a discendenza delle antiche macchine teatrali barocche, forse a ipotesi di moderna attuazione dell'utopia wagneriana dell'Opera d'Arte totale. Solo alcuni momenti realmente impressionanti ne possono essere qui richiamati: l'arrivo dei giganti, con quei due ponti levatoi che si abbassano repentinamente; l'effetto delle prospettive nella discesa al Nibelheim; la foresta impenetrabile del primo atto di Die Walküre, solcata dalle luci delle lanterne degli inseguitori; la cavalcata, ovviamente, con un'ampia e premeditata dose di kitsch, ma accattivante; la continua presenza dei tre elementi fondamentali: l'acqua del Reno, dal blu zaffiro dell'inizio, al rosso del sangue di Siegfried, dopo che Gunther vi si lava le mani; il fuoco, dal Nibelheim fino a quello attorno a Brünnhilde; la terra, con le rocce, gli alberi, un fogliame denso e umido. Non mancano, certo, soluzioni più deboli, quali una sporadica concessione ad un'ironia non sempre pertinente o il finale ultimo, con quel brutto cavallo che faticosamente s'avvia con la Walkiria verso un pallido rogo.

Capitolo a sé sono infine le riprese in high definition, la regia di Gary Halvorson e il suono in DTS Surround, tutti d'una presenza e d'una bellezza di prospettiva finora inedite. A completare un prodotto superbo e imperfetto insieme, ma che non si può non conoscere.
 
 
 






 
 
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