Niente medioevo, niente cavalieri dalla corazza d'argento, niente
navicelle tirate dai cigni. Un tempo alluso dai costumi: quello moderno. Un
generico Novecento, nelle fogge dei soldati. Una reminiscenza ottocentesca
nel costume di Elsa.
Qualche connotazione razziale in una Ortud che
più ariana di così non potrebbe essere, come ad indicare che l'avversione ad
Elsa e al mistico cavaliere nasconde desideri di segregazione, ansia di
sopraffazione, spirito di casta.
Il palcoscenico del Nationaltheater
è sovrastato da una struttura a ponte, alla quale si può accedere dai lati e
che permette al Coro di assistere all'azione. Al centro ci sono le
fondamenta di una casa che, dopo la liberazione di Elsa, la giovane donna
costruisce assieme al suo sposo e con l'aiuto di un gruppo di collaboratori.
Loro, come Lohengrin portano jeans o salopette, una maglietta, le scarpe
da tennis. L'estraneità del cavaliere è proprio segnata da questo
abbigliamento che lo mette fuori dal mondo del Brabante, dalle divise dei
militari, dall'abito borghese dell'Araldo che sta seduto
su di un alto sgabello, come il giudice di una partita di tennis.
Costruire la casa vuoi dire perseguire il giusto progetto, al quale Elsa
nella sua ingenuità chiama anche Ortrud, che non si sottrae, sebbene
edificare quella magione sia per lei un inganno. Ma la costruzione non può
continuare. Elsa non riesce ad accettare il patto e la casa brucia. Il
mistico cavaliere deve andarsene, mentre riappare Gottfied, stregato da
Ortrud, che assorbe l'attenzione della sorella e permette al regista di
farci cogliere una verità del dramma: l'incapacità di Elsa di porsi al
livello di Lohengrin, rimanendo confinata nel mondo concreto.
Tutto
questo è uno spettacolo semplicemente meraviglioso per l'immediatezza con
cui l'allestimento veicola la storia, non avvilendola affatto. Lohengrin è
questo, è quello che viene raccontato. Forse potremo lamentare qualche
eccesso di simbolismo, oppure l'ingenuità di fare tenere in mano a Lohengrin
un cigno impagliato, ma sono piccole cose.
Rimane a latere il
problema dell'incapacità di noi moderni di raccontare attraverso il passato
e di dovere ricorrere all'attualità, ad un ritorno costante al presente. Ma
è un'altra questione, che non attiene ad una recensione. Siamo così di
fronte ad uno spettacolo splendido e tradizionale, nella misura in cui il
regista non compie strane sovrapposizioni, né violenze, né forzature. Legge
quello che c'è scritto nella musica e lo fa venire allo scoperto, Dal mito
all'apologo e l'apologo è metafora del contenuto attraverso una serie di
correlativi oggettivi, primo fra tutti la casa.
Per questa visione
smitizzata, ma non banale, Kent Nagano inventa un Lohengrin asciutto e
sincero, che cerca sonorità liriche, ma non estenuate. È un Wagner limpido,
lontano da ogni tentazione estetizzante. È un Wagner che, in linea con
l'impostazione dei direttori più interessanti dell'ultima generazione,
riconduce l'orchestra ad una funzione illustrativa, quasi si trattasse di
una colonna sonora. II significato va cercato sul palcoscenico e i leitmotiv
diventano altrettanti segnali, di facile lettura, per individuare il
percorso.
L'operazione di Nagano trova potente alleato nel
protagonista. Jonas Kaufmann presta a Lohengrin la bella voce di un
Heldentenor di moderno sentire. È robusta nel canto, senza enfasi
declamatoria. Sfrutta il retrogusto baritonaleggiante, scuro, a tratti anche
gutturale del suo singolarissimo timbro, che però non nega la tenorilità del
registro acuto sempre timbrato con uno spolvero brillante. A questo si
aggiunge l'arte della mezzavoce che gli permette di siglare un commovente
saluto al «cigno gentil», come dicevano i tenori italiani, senza però
deragliare dallo stile di Wagner per prestargli inopinatamente degli
zuccheri filati dolcissimi, più consoni all'opéra-lyrique. È una mezzavoce
suggestiva che ritroviamo nel Duetto della camera nuziale. Essa si sposa al
declamato virile, ma giustamente lontano da ogni machismo declamatorio.
Conferisce forza e determi-nazione al grande racconto che chiude l'opera,
«In fernen Land», ma prima ancora all'appassionata arringa del cavaliere nel
I atto. Una recensione non è luogo di confronti. Ma è certo che Kaufmann non
è solo un bel Lohengrin, ma un Lohengrin che può entrare di diritto nella
galleria dei migliori, realizzando una sorta di congiunzione tra le letture
di taluni interpreti tedeschi e quella di Sandor Konya.
Anja
Harteros non lo eguaglia. La voce dai tratti aciduli le consente un canto
meno risolto, meno autorevole e meno convincente. L'interprete supera la
cantante per intensità e partecipazione, ma le manca l'ispirazione. Non
approda ad un ritratto altrettanto coinvolgente. Lo scarto, almeno per noi,
non è tale da costituire un pregiudizio e da non permettere di formare una
coppia che, non a caso, trova nel Duetto della camera nuziale uno dei
momenti più riusciti. C'è poi da dire che l'uno e l'altra, separatamente ed
assieme, sono assolutamente credibili e rispondenti al ruolo che la regia
chiede loro di giocare.
Gli altri sono tutti funzionali ed efficaci.
Non mi sentirei però di trovare in alcuno di loro una particolare
eccellenza. Varrà piuttosto osservare che la coppia cattiva trae credibilità
dall'ottimo inserimento nello spettacolo, dal convincente rapporto artistico
che li lega, con una particolare preferenza per la Schuster, che crea una
singolareOrtrud, gelida e cattiva e compensa con la recitazione quello che
la voce non riesce e forse non può dire.
Registrazione e ripresa di
alto livello, con valida definizione dei piani sonori, mentre la telecamera
sa passare con fe-licità dall'insieme ai personaggi, dalla loro interazione,
ai volti e agli sguardi.
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