Giornale della Musica, febbraio 2012
Marco Beghelli
 
Abbado e l'eleganza leggera di Fidelio
 
La registrazione dell'opera beethoveniana effettuata al Festival di lucerna con due interpreti di grande spessore come Stemme e Kaufmann
 
Il primo approccio di Claudio Abbado all'opera teatrale di Beethoven è recente: risale alla primavera 2008, con alcune recite a Reggio Emilia e varie repliche in Italia, Spagna, Germania, Svizzera. Le ultime esecuzioni sono state a Lucerna in forma semiscenica, nell'agosto 2010: a questa occasione va riferita la nuova registrazione Decca, caratterizzata però da tale precisione e pulizia di suono da far pensare a un'esecuzione senza pubblico, realizzata a lato delle recite ufficiali.

La lettura generale è all'insegna della compostezza: manca la tragicità di Klemperer, manca l'euforia di Bernstein. Abbado sembra volerci ricordare l'anno della partitura: 1805 di base, nonostante la versione consolidata risalga al 1814. Il Fidelio che solitamente ascoltiamo è filtrato dalla sensibilità tardoromantica, ma i suoni che si sentivano per i teatri d'Europa nel 1805 erano quelli di Paisiello, di Cimarosa, al più di Mayr: una realtà che rende ancor più sconvolgente l'esito estetico raggiunto da Beethoven in quest'opera.

Ebbene, senza intraprendere strade di restauro sonoro e stilistico che non gli competono, è innegabile che Abbado elimini ogni eccesso di tragicità e pesantezza di certa tradizione esecutiva tedesca, per offrirci invece una partitura "leggera" (emblematica l'Ouverture), contenuta nello stacco dei tempi e nelle dinamiche, davvero mozartiana nella prima mezz'ora votata al genere dell'opera comica. L'eleganza è la cifra distintiva, pretesa e ottenuta anche dai cantanti: Rocco non è il solito rozzone, Leonore non strilla quanto Brünnhilde, Florestan tenta finezze da cantante rossiniano: memorabile il grido di dolore «Gott!», nel più tetro carcere, attaccato più che pianissimo e cresciuto progressivamente d'intensità fino al fortissimo, con un virtuosismo canoro che non abbiamo mai udito in questo personaggio affidato troppo spesso a un Heldentenor. Jonas Kaufmann, autore di tale prodezza, è di casa tanto in Wagner quanto in Mozart e Schubert. Il suo Florestan risente favorevolmente di questa triplice natura vocale e interpretativa. C'è chi lo considera un grande cantante (Abbado, evidentemente, che di lui si serve sempre più spesso); c'è chi ama sottolinearne ad ogni pie' sospinto i limiti vocali (anche qui i suoni talvolta indietreggiano e si stimbrano, specie nella zona del passaggio, dal mi al sol acuti). Innegabilmente è un interprete intelligente, che non si limita a cantare ma fa un uso espressivo della sua voce così carica di colori bruniti e di screziature suggestive, con un effetto complessivo oggigiorno difficilmente superabile in questa difficile parte. Lo stesso si dica per Nina Stemme che, alle prese con la parte davvero impossibile di Leonore, esce con tutti gli onori grazie a una solida tecnica e a una voce sufficientemente duttile da rimanere perfettamente controllata ogni volta che Beethoven la costringe a salti e posizioni inconsulti. Efficaci gli altri interpreti, con qualche riserva solo per Falk Struckmann, che non risolve al meglio l'aria di Pizarro. Per contro, abbiamo un Don Fernando di lusso in Peter Mattei.

Semplicemente, perfetta l'orchestra, con prime parti d'eccezione, e l'Arnold Schönberg Chor, spinto anch'esso a una dimensione cameristica, non nel numero delle voci quanto nell'esito sonoro.

La riduzione dei dialoghi parlati ai minimi termini contribuisce del resto essa stessa a contenere la teatralità del dramma, per farne piuttosto un oratorio: quell'oratorio in cui l'ideazione beethoveniana sfocia nell'ultima scena, prefigurando il finale della Nona Sinfonia.
 






 
 
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